Francesco Trevisani, la Sacra Famiglia, 1680 circa
Solitamente si è abituati a parlare di esclusione volontaria del bonum coniugum nell’ambito dei capi di nullità matrimoniali in diritto canonico, tuttavia in questo articolo la questione trattata verterà sulla domanda: in quali casi si può parlare di incapacità (invece che di volontà escludente) di realizzare il bonum coniugum? Per fornire una risposta a questa domanda sarà opportuno andare a delineare che cosa si intende con il termine bonum coniugum, quali sono le problematiche di questo concetto e quali siano le difficoltà da affrontare nel distinguere tra esclusione ed incapacità.
Che cos’è il bonum coniugum?
Sia nel Codice di diritto canonico del 1983 (canone 1055 §1) che nel Codice dei canoni delle Chiese orientali (canone 776 § 1) è stato stabilito che la comunità di tutta la vita tra i coniugi per sua natura è ordinata al bene dei coniugi oltre che alla generazione ed educazione della prole. Il Codice di diritto canonico del 1917 richiamava (canone 1013 § 1) tra i fini secondari del matrimonio il mutuo aiuto. Questo mutuum adiutorium è il comportamento che i coniugi devono tenere al fine di raggiungere l’obbiettivo del bonum coniugum. In riferimento al capo di nullità rileva non tanto il vicendevole aiuto che i coniugi sono tenuti a prestarsi, bensì il fine che essi intendono perseguire. Ovvero la questione verte sul perché gli sposi sono obbligati ad aiutarsi.
Nel fare riferimento all’esclusione del bonum coniugum si potrebbe cadere in tentazione di compararlo con l’esclusione di uno dei tria bona, ovvero bonum prolis, bonum fidei, bonum sacramenti. Queste esclusioni tuttavia differiscono da quella esaminata, dato che fanno riferimento ad una dimensione ben determinata del matrimonio, mentre nel bonum coniugum
“la dimensione da prendere in considerazione riguarda l’insieme del rapporto interpersonale tra i coniugi, con la ricchezza e la complessità di tutti i suoi aspetti (fisici, psicosessuali, morali, economici, sociali, spirituali, ecc.), per cui non risulta facile determinare i suoi aspetti essenziali (…)” [1].
In questo caso sotto analisi non viene messo un singolo aspetto del matrimonio, come per i tria bona, bensì l’intera vita matrimoniale. Rimane tuttavia una questione difficoltosa determinare i comportamenti ritenuti essenziali per realizzare il bene dell’altro. Per tale ragione sarebbe opportuno fare riferimento al contesto culturale ed all’individualità della coppia, questo perché le esigenze richieste per soddisfare il bonum coniugum varierebbero a seconda della coppia e delle singole persone che la compongono. Una valutazione giudiziale basata su un tale criterio potrebbe tuttavia risultare arbitrale e non rispondere più alle aspettative di certezza giuridica richieste ai giudizi. Per questo motivo devono essere presi come punti di riferimento dei parametri comportamentali che ciascun coniuge avrebbe dovuto osservare nei confronti dell’altro.
L’essenza del bonum coniugum
L’essenza del bonum coniugum si riferisce all’essere coniuge. Quando si dichiara un soggetto incapace a realizzare il bonum coniugum ciò vuol dire che egli è incapace di essere un marito o una moglie. Il giudizio in una sentenza di nullità matrimoniale verte dunque non sulla coppia in sé, bensì sul suo fondamento, ovvero sulla costruzione o meno di un identità coniugale da parte dei coniugi. Il bonum coniugum non si realizza dunque nella nascita del vincolo, bensì nel suo effettivo sviluppo esistenziale [2]. Il vincolo tuttavia deve sempre essere ordinato al bonum coniugum e sotto tale punto di vista si distinguono due tipologie di casi, quelli della capacità e quelli della volontà, ovvero: il soggetto può non essere capace di realizzare tale ordinazione oppure il soggetto può voler consapevolmente escludere tale ordinazione.
Si deve fare riferimento a due punti chiave dell’unione coniugale per la realizzazione del bonum coniugum. Il primo è il modo di vedere l’altro coniuge. Per vedere l’altro come coniuge è innanzitutto necessario vederlo come persona, con la sua dignità ed eguaglianza rispetto alla propria persona. Nei casi pratici in cui uno o entrambi i coniugi presentano una patologia psichiatrica a causa della quale si esclude l’altro sia come coniuge che come persona umana si ha l’esclusione e l’incapacità al bonum coniugum. L’altro aspetto riguarda la costituzione di una comunità di vita. Essa costituisce relazione di solidarietà, di servizio, di aiuto reciproco e di partecipazione alla vita altrui [3].
Nel caso in cui si esclude la considerazione dell’altra persona quale coniuge, non si dà luogo ad una vera comunità di vita, ordinata al bene dell’altro, dato che l’altro viene considerato semplicemente come uno strumento di cui servirsi per soddisfare i propri interessi [4]. Ciò che viene richiesto dunque per realizzare il bonum coniugum è un minimo di solidarietà e compartecipazione intenzionale e volontaria da parte dei soggetti coinvolti, ovvero essenzialmente si richiede semplicemente la volontà di essere mutuamente marito e moglie.
L’incapacità dal punto di vista peritale
Vi sono diverse specie di incapacità di natura patologica per quanto attiene la mancata realizzazione del bene coniugale. In ambito peritale è essenziale avere una chiara definizione della fattispecie normativa alla quale riferire l’incapacità psichica analizzata. Precedentemente è stato delineato in termini generali il concetto di bonum coniugum quale impegno dei coniugi all’aiuto reciproco, tuttavia in ambito peritale, essendoci una necessità impellente di una chiara definizione di cosa sia il bonum coniugum, da usare come fondamento per le assunzioni e valutazioni dei periti sull’incapacitas, viene usato come punto di riferimento principale il Magistero di Benedetto XVI, espressosi in tal senso in riferimento al bonum coniugum:
“consiste semplicemente nel volere sempre e comunque il bene dell’altro, in funzione di un vero e indissolubile consortium vitae” [5]
Ancora prima Giovanni Paolo II si era espresso su questo tema, facendo riferimento alla pari dignità, alla dualità e complementarietà dei coniugi, oltre che all’amore coniugale, compreso come impegno verso il coniuge, di volere sempre il bene dell’altro e di realizzare nel quotidiano la donazione-accettazione assunta con patto irrevocabile [6].
L’oggetto dell’analisi: la storia di vita e la relazione con il coniuge
La difficoltà affrontata nel definire in cosa consista effettivamente il bonum coniugum permette di comprendere quanto sia arduo il lavoro del perito nell’esaminare la complessità dei rapporti personali tra due soggetti, per poter valutare se un soggetto sia capace o meno rispetto al bene degli sposi. Il primo tassello che il perito deve prendere in analisi è la storia di vita del soggetto sul quale va effettuata la perizia, dato che è solo grazie alla storia di vita che l’esperto può comprendere la molteplicità dei fattori che hanno reso la persona capace o meno al bonum coniugum. In particolar modo il focus dell’analisi sarà incentrato sulla relazione con il partner, essendo essa il fondamento della dimensione coniugale. Il bonum coniugum si identifica dunque “con il benessere fisio-psichico e con il perfezionamento reciproco dei coniugi che fanno parte della dinamica di coppia”[7].
Il matrimonio e la “communio vitae” consistono nell’unione esistenziale di due persone “in tutti gli aspetti della loro vita, spirituale, intellettuale, sentimentale, economica, fisica” [8]. Nella formazione e nel funzionamento di una coppia matrimoniale ogni membro porta la sua storia, il suo vissuto e quello della sua famiglia di appartenenza. Dunque tutto ciò che entra nella relazione di coppia può influire sulla realizzazione o meno del bonum coniugum [9]. La relazione è la fondazione antropologica della coppia ed ergo è a partire dall’osservazione di essa che il perito determina se vi sia la presenza o l’assenza della capacitas al bonum coniugum. Si tenga a mente che la coppia coniugale non è semplicemente la somma dei singoli elementi che la compongono, bensì sussiste quando vi sono tre elementi: quello maschile, quello femminile e la relazione tra i due [10].
Incapacità individuali o di coppia
Quando si analizzano le incapacità esse si possono suddividere sotto due profili: i profili individuali, riguardanti l’incapacità di uno solo dei membri della coppia che è affetto da una condizione di natura psicopatologica significativa, oppure i profili di coppia, nei quali entrambi i coniugi ravvisano singolarmente (ognuno per sé) delle patologie, che se considerate nell’ambito della vita di coppia vanno ad aggravare l’una il quadro patologico dell’altro soggetto. Nell’ambito dei profili individuali vi sono diverse condizioni e disturbi responsabili per l’incapacitas, tra i quali i disturbi di personalità o personalità psicopatiche, le personalità borderline, le personalità paranoiche, quelle dipendenti, quelle nevrotiche, isteriche, ipocondriache, fobiche ed infine quelle narcisiste. Per chiarire i motivi che spingono a dichiarare tali soggetti incapaci, basti prendere come esempio il soggetto narcisista. Tale soggetto, che mostra tratti di marcato egocentrismo e mancanza di empatia, riduce l’altro ad un mezzo puramente strumentale per il proprio appagamento. Invece che elevare il proprio coniuge, in accordo con il bonum coniugum, lo svaluta e non lo considera nella sua dignità di persona [11]. Per tali ragioni si comprende come possa non essere ritenuto capace ad essere coniuge.
Nei profili di coppia bisogna tenere a mente che entrambi i coniugi sono incapaci esaminati singolarmente ed aggravano le proprie reciproche situazioni cliniche, esaminati congiuntamente in un quadro d’insieme. Tra le fattispecie previste in questo ambito vi sono le coppie co-dipendenti, nelle quali un membro viene influenzato dall’altro, le coppie perverse, nelle quali i soggetti non si pongono su di un piano dialogico e di reciproco rispetto, ed infine le coppie immature, nelle quali un coniuge cerca nell’altro la compensazione delle proprie carenze, l’altro diventa indispensabile per il proprio equilibrio [12].
Note
[1] C. J. ERRAZURIZ M., Il senso e il contenuto essenziale del bonum coniugum, in Ius Ecclesiae, XXII, 2010, pp. 573-590: 578.
[2] C. BURKE, L’oggetto del consenso matrimoniale. Un’analisi personalistica, Giappichelli, Torino, 1997, p. 108.
[3] J. HERVADA, Una caro. Escritos sobre el matrimonio, EUNSA – Instituto de Ciencias para la Familia, Pamplona, 2000, pp. 196-202.
[4] O. GIACCHI, L’esclusione del “matrimonium ipsum”, L’esclusione dello “ius ad vitae communionem” (1977), in ID., Chiesa e Stato nella esperienza giuridica (1933-1980), Studi raccolti e presentati da O. Fumagalli Carulli, Giuffrè, Milano, 1981, vol. I, pp. 375-377.
[5] BENEDETTO XVI, Allocuzione alla Rota Romana, 26 gennaio 2013, in AAS 105 (2013), pp. 168-172, n. 3.
[6] GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Rota Romana, 21 gennaio 1999, in AAS 91 (1999), pp. 622-627, n. 3.
[7] G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria nelle aule matrimoniali canoniche, Città del Vaticano, 2006, p. 112.
[8] J.J. GARCIA FAILDE, Manual de Psiquiatría Forense Canónica, Salamanca, 1991, p. 190.
[9] C. BARBIERI, L’incapacità al bonum coniugum: profili psichiatrici, pp. 213-244: 216.
[10] C. BARBIERI, L’incapacità al bonum coniugum: profili psichiatrici, pp. 213-244: 219.
[11] R. FILIPPINI, Avventure e sventure del narcisismo. Volti, maschere e specchio del dramma umano, Bari, 2006.
[12] C. BARBIERI, L’incapacità al bonum coniugum: profili psichiatrici, pp. 213-244: 241-243.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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