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Il canone 1378 § 1 del Codice di Diritto Canonico si inserisce all’interno del Titolo II del libro VI, che disciplina i delitti contro le autorità ecclesiastiche e l’esercizio degli incarichi. Questo canone fornisce una chiara definizione dell’abuso di potestà ecclesiastica o dell’ufficio, specificando non solo le pene previste per chi viola tali obblighi, ma anche l’imperativo di riparare il danno provocato. È proprio questa combinazione tra sanzione penale e obbligo riparatorio che distingue la norma, rendendo esplicita la finalità correttiva e non puramente punitiva della disciplina ecclesiastica.
Nel contesto ecclesiastico, il ministero o l’incarico ricevuto rappresentano non solo una funzione, ma un atto di fiducia che lega il ministro ai fedeli. Questa relazione è intrinsecamente orientata a promuovere la libertà e la crescita spirituale, e non deve mai diventare un vincolo di dipendenza o sottomissione. La norma canonica chiarisce come l’abuso della potestà ecclesiastica possa verificarsi non solo in atti concreti, ma anche in omissioni deliberate di doveri, ponendo così l’accento su ogni possibile violazione del ruolo pastorale.
L’ufficio o l’incarico ecclesiastico sono caratterizzati da un insieme di doveri e obblighi la cui mancata osservanza o abuso, tanto più grave quanto più rilevante è la posizione ricoperta, può avere ripercussioni significative sulla comunità ecclesiale.
L’esercizio della potestà ecclesiastica
Uno degli elementi centrali che emerge dal canone 1378 § 1 è la questione dell’esercizio della potestà ecclesiastica. Tale abuso può avvenire attraverso atti positivi, come decisioni o azioni contrarie al diritto ecclesiastico, oppure mediante omissioni consapevoli di atti dovuti, violando così la legge o la giustizia canonica.
La gravità dell’abuso è proporzionale all’importanza dell’ufficio e alle sue conseguenze per la vita della Chiesa. Più elevato è il ruolo ricoperto, maggiore è l’impatto potenziale dell’abuso sulle anime affidate alla cura del ministro. Perciò, la norma canonica intende proteggere non solo la giustizia interna alla Chiesa, ma anche la santità del servizio pastorale, che deve riflettere l’amore e la libertà di Cristo.
La riflessione sull’abuso di potere ecclesiastico non può prescindere da una considerazione della tentazione intrinseca nel ruolo sacerdotale, quella del “farsi come Dio”. Questa tentazione, antica quanto il peccato originale, si manifesta quando il ministro sacro assume una posizione di protagonismo e superiorità, sostituendo Gesù Cristo come modello di guida spirituale e mettendosi al centro della relazione pastorale.
Questo processo può essere subdolo, spesso nascosto dietro un’apparente rettitudine morale e una generosità che, anziché servire la libertà dei fedeli, crea dipendenza e sottomissione. L’abuso di potere, in questo contesto, diventa una forma di idolatria del sé, in cui il ministro strumentalizza la propria posizione di autorità per sostituirsi a Dio, imponendo la propria volontà invece di guidare le anime verso la vera libertà cristiana.
L’abuso relazionale: autorità, coscienza e coinvolgimenti affettivi
Un ulteriore aspetto rilevante è rappresentato dalle dinamiche relazionali che possono portare a forme di abuso non solo di autorità, ma anche di coscienza e, in casi estremi, di natura sessuale. La nascita di rapporti “preferenziali” tra il ministro e determinate persone all’interno della comunità ecclesiastica può degenerare in un abuso affettivo, in cui la fiducia inizialmente riposta nel ministro viene strumentalizzata per creare legami di dipendenza emotiva e spirituale.
Tali comportamenti sono particolarmente insidiosi, poiché non sempre sono immediatamente riconosciuti come sbagliati. Spesso, infatti, il ministro non abusa di potere in modo evidente, ma lo fa attraverso un coinvolgimento affettivo ingiustificato, che forza confidenze e impone scelte personali, legando la persona al proprio controllo pastorale. Questo tipo di abuso è estremamente dannoso, poiché mina la libertà interiore della persona e viola profondamente la sua coscienza.
Il canone 1378 introduce anche una riflessione critica sulle relazioni tra ministri sacri e gruppi vulnerabili, come i minori e le donne. In queste situazioni, il rischio di abusi di autorità è particolarmente alto, poiché la differenza di età e la posizione di vulnerabilità affettiva e psicologica rendono tali persone particolarmente suscettibili a forme di manipolazione emotiva e spirituale.
Nel caso delle donne i comportamenti narcisistici o abusatori da parte dei ministri possono avere conseguenze devastanti sul piano spirituale, psicologico e affettivo. La normativa canonica recente ha spostato l’accento sulla tutela delle persone vulnerabili, riconoscendo che la protezione dei minori e delle persone in situazioni di fragilità è una priorità assoluta, più ancora della semplice protezione della castità del ministro.
Ecclesialità
L’antidoto contro le derive individualistiche e narcisistiche dei ministri ecclesiastici risiede in una solida ecclesialità, fondata sul confronto aperto e schietto con i confratelli e i Pastori. Questo confronto non solo promuove una visione più comunitaria del ministero, ma aiuta anche a prevenire derive personali e a mantenere l’autenticità della missione evangelizzatrice. Solo attraverso uno spirito di collaborazione e di amicizia fraterna, il ministro può vivere pienamente il proprio servizio, riflettendo la volontà di Cristo e non cedendo alle tentazioni del potere e del protagonismo.
Note
Cfr. D. Cito, Il concetto di abuso di potere e di coscienza da parte del chierico nel diritto canonico, in Tredimensioni 3 (2020), p. 302-312.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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