Un diritto processuale penale canonico «del nemico»? Riflessioni a proposito di un testo di Jakobs

Nemico

L’estate offre a volte occasione per letture pendenti, e così ne ho approfittato per tuffarmi in un testo ormai conosciuto di Günther Jakobs, penalista tedesco, già Ordinario nell’Università di Bonn, che ha proposto la tesi del «diritto penale del nemico».

Trattasi di un saggio molto suggestivo che mi ha fatto riflettere parecchio, in cui si trova una tesi che accese un vivo dibattito nella dottrina penale, con alcuni sostenitori e un bel gruppo di critici. Sperando di non tradire il nocciolo della sua tesi, si potrebbe dire che Jakobs sostiene che il fenomeno giuridico richiede un abbinamento dell’aspettativa cognitiva e quella normativa, ovvero, tra ciò che le cose sono e ciò che queste dovrebbero essere. Il dovere essere deve trovare una qualche realizzazione attuale o potenziale nell’essere.

Laddove vige un divorzio totale tra l’attesa cognitiva e l’attesa normativa si può intuire il collasso dell’ordine giuridico: un dover essere che né ora né mai potrà impiantarsi nell’ordine dell’essere è un’illusione, qualcosa che si sgretola e che non ha nessuna capacità di ordinare. L’ordine giuridico permanentemente irrealizzato e incompiuto finisce per non essere in grado di chiamarsi, appunto, diritto.

Lo stesso, a giudizio di Jakobs, potrebbe venire applicato alla personalità del soggetto: laddove il soggetto appare come essenzialmente «contrafattuale», ossia, reduce di un divorzio netto tra l’aspettativa cognitiva e l’aspettativa normativa, vi sono motivi per dubitare che lì si tratti davvero di un soggetto che merita essere trattato come tale. Ciò permette introdurre la distinzione tra il cittadino e il nemico come soggetti passivi della legge penale.

Il cittadino non appare come una «personalità contrafattuale», perché non vi è un definitivo né totale né permanente inadempimento dell’aspettativa normativa; il nemico è essenzialmente una «personalità contrafattuale», che delude in modo permanente, radicale e netto l’aspettativa normativa. Dal cittadino si può ragionevolmente aspettare un’integrazione in una convivenza costituzionale, e perciò ha senso considerarlo come destinatario dell’ordine giuridico; dal nemico una tale attesa è una pura illusione. Stando così le cose, nulla vieterebbe di trattare diversamente il cittadino dal nemico.

Vi sarebbero due diritti penali, uno rivolto al cittadino, l’altro rivolto al nemico. Come lo stesso Jakobs afferma, colui che non offre una sicurezza cognitiva di una condotta personale – ossia, chi non dà alcuna fondata speranza che l’aspettativa normativa possa venire soddisfatta – non solo non può essere trattato come persona, ma lo Stato non deve trattarlo come persona, poiché altrimenti verrebbe minacciato il diritto alla sicurezza delle altre persone. Portato alle ultime conseguenze, la battaglia contro il nemico è una lotta che si collocherebbe persino oltre il diritto, sarebbe il non-diritto per proteggere i diritti altrui.

Nascerebbe, di conseguenza, una doppia corsia nel sistema di giustizia penale. Oltre alle conseguenze nel piano sostanziale, si aprirebbe pure la strada ad un diritto processuale penale del nemico; un sistema che prescinderebbe (giustificatamente, seppur in apparenza) di certe garanzie proprio nella convinzione che non si sta trattando con una vera e propria persona ma con una pura, semplice (ed inevitabile) fonte di pericolo. Le garanzie, di conseguenze, andrebbero bene per il cittadino, ma non per il nemico. L’imputato apparirebbe come soggetto processuale munito di garanzie, ma al contempo, potrebbe diventare anche oggetto di coazione processuale.

Com’è ovvio, le tesi di Jakobs hanno suscitato parecchie (e fondate) critiche nella dottrina penale. Il punto che preme ribadire è se caso mai possano rintracciarsi tracce di questa proposta nel nostro ordinamento. Uno si sentirebbe subito mosso a negarlo, sulla base della dignità di ogni persona, incluso anche il nemico, che è chiamato alla conversione: il più grande dei peccatori va trattato come qualcuno che può intraprendere il cammino di ritorno, e ciò non impedisce che si cerchi sempre il ristabilimento della giustizia, guardando in modo principale all’offeso per il delitto.

Tuttavia, se si passa in rassegna la legislazione penale e processuale penale in tema di abusi sui minori, a volte vi è da chiedersi se certi contemperamenti o compromissioni delle garanzie dell’imputato potrebbero evidenziare il fatto che, tutto sommato, e magari inconsapevolmente, ad un diritto processuale penale del nemico ci si creda in qualche modo: l’uso a volte indiscriminato del procedimento amministrativo quale opzione equipollente al processo giudiziario, la dimissione dello stato clericale come pena quasi per difetto in certi casi senza una dovuta motivazione, l’estromissione del controllo della Segnatura Apostolica in merito ai decreti penali del Dicastero per la Dottrina della Fede, la scarna normativa e regolamentazione procedurale, l’insondabile e ignoto universo di ragioni per le quali si deroga o non si deroga alla prescrizione, la non pubblicazione della giurisprudenza penale nei delitti riservati, il dovere d’informare il reo non della presunzione d’innocenza che lo assiste ma del diritto di chiedere la dispensa ab oneribus (cfr. art. 27 Norme dei delitti riservati al DDF), l’assenza di una preoccupazione legale in ciò che riguarda l’orizzonte postdelittuale e post penale, che fa sì che una volta condannato, il reo cade in dimenticanza pur proclamandosi come uno dei fini del sistema penale il suo emendamento…

A volte vi è forse da pensare (e uno desidera fermamente starsi sbagliando) se in certi casi non ci troviamo anche noi ad ammettere qualche distinzione tra il cittadino e il nemico, a riconoscere dunque nei fatti una certa legittimità ad un diritto processuale penale del nemico.

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

 

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Marc Teixidor

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