Il giudice e il matrimonio irreparabilmente fallito

giudice
Il rito del matrimonio, miniatura del 1360-75, contenuta nel codice della Britach Library

Nel can. 1975 del CIC, che con il m.p. Mitis Iudex Dominus Iesus ha abrogato il precedente canone 1976, si legge: «Il giudice, prima di accettare la causa, deve avere la certezza che il matrimonio sia irreparabilmente fallito, in modo che sia impossibile ristabilire la convivenza coniugale».

Questo nuovo canone sembra creare delle difficoltà rispetto alla precedente norma che sollecitava in modo sostenuto il giudice a ricorrere ai media pastorali nel tentativo di riconciliazione dei coniugi. La possibile difficoltà starebbe anche nel fatto qualcuno potrebbe pensare che una eventuale dichiarazione di nullità risulterebbe come un rimedio naturale dinnanzi alle sempre più frequenti crisi coniugali. Pertanto, un  matrimonio irreparabilmente fallito potrebbe essere inteso come un certificazione di un divorzio, come previsto in alcune legislazioni statali. Ma un matrimonio fallito non è necessariamente un matrimonio nullo. L’utilizzo di siffatta terminologia pare sottintendere, tra le righe, come il ‘nuovo corso’ del diritto processuale matrimoniale canonico concepisca il giudizio di nullità come ‘rimedio’ somministrato soprattutto per quelle situazioni matrimoniali collassate (collapsa matrimonia) dopo la celebrazione, anche se non corrispondenti a matrimoni invalidi al momento della manifestazione del consenso.

“Prescrizione del legame”?

A tal proposito, alcuni autori si chiedono se, considerate tali premesse, sia davvero necessario fare tutto il processo ordinario o breve che sia per stabilire la nullità. Tuttavia, si tratta di una posizione non condivisibile, perché significherebbe rinnegare la stessa riforma, la quale come ricorda il Proemio del Mitis Iudex vuole che le cause di nullità del matrimonio vengano trattate per via giudiziale e non amministrativa, perché solo così è possibile tutelare la verità del sacro vincolo. Non si può pensare che un matrimonio, anche se fallito da molti anni e con annesse sentenza di divorzio, possa ipso facto ritenersi nullo, basandosi sul fatto che uno dei due o entrambi nel frattempo vivono una nuova unione, abbiano altri figli o comunque vivano in una situazione totalmente diversa dal momento del consenso. Si tratterebbe di una sorta di “prescrizione del legame”, elemento totalmente in contrasto con il consortium totius vitae (can. 1055 §1).

Una malintesa impostazione può davvero aprire il varco all’‘annullamento’ ovvero al “divorzio cattolico” tramite la forzatura ermeneutica dell’enunciato normativo, finalizzata alla reiterata e quasi routinaria concessione delle pronunce pro nullitate per venire incontro alle rotture della vita coniugale che non si innestano in alcun modo sulla fase ‘genetica’ del vincolo matrimoniale.

Sano realismo

Ora per poter inquadrare il can. 1975 sembra opportuno ricordare quanto dice Mons. Bunge (Prelato della Rota Romana): “L’esperienza dei giudici che per molti anni hanno lavorato nei tribunali di primo grado senza trovarsi di fronte all’opportunità di applicare con successo l’esortazione a cercare, per quanto possibile, di conciliare le parti ed eventualmente di convalidare il matrimonio prima di accettare un causa di nullità, ha comportato la modifica della norma che imponeva tale obbligo, a favore della nuova che impone di verificare il fallimento irrimediabile della convivenza coniugale, prima di accettare la causa di nullità”.

Sembra dunque che da questo sano realismo e constatazione abbia indotto il Legislatore a modificare la norma contenuta nel precedente can. 1976 e prendendo atto del fatto che è molto raro che quando viene adito il giudice, ci sia una concreta speranza di soluzione favorevole al matrimonio e di ripresa della vita coniugale. Ragion per cui il nuovo canone dichiara che il giudice prende atto che il matrimonio è irreparabilmente fallito e che è impossibile ristabilire una vita matrimoniale.

Inoltre, leggendo con attenzione il canone si possono cogliere due principi: il primo è il tono categorico della norma, per la quale si parla di certezza nella constatazione dell’irreparabilità; il secondo invece è di tipo temporale, in quanto tale riscontro deve avvenire prima dell’accettazione della causa. In questo si intravede la grande importanza dell’indagine pregiudiziale o pastorale quale strumento per aiutare i fedeli che dubitano del loro matrimonio di ricevere tutte le informazioni e le spiegazioni del caso.

Breve lettura del can. 1675

La norma novellata parte da un dato di fatto ossia dalla constatazione secondo cui non sussistono più le condizioni per ristabilire il rapporto coniugale. Una norma che guarda realisticamente il tempo presente, dove molte coppie vivono il dramma della separazione con tutti quegli strascichi di sofferenze che coinvolgono le parti e molto spesso i loro figli.

Ma, il testo codiciale sembri voler esprimere qualcosa di più di un mera constatazione di fatto. Per evidenziare ciò appare opportuno distinguere dei distinti elementi presenti nella normativa: il soggetto, come colui che compie l’azione, il predicato, che indica l’azione compiuta dal soggetto ed infine il complemento oggetto, che risponde alla domanda “chi?” o “che cosa?”

Il soggetto, colui che realizza ed è il primo protagonista dell’azione, nel canone è identificato col giudice, persona o ente cui è riconosciuta l’autorità e la competenza di emettere giudizi o pareri definitivi, e anche colui che prende decisioni in merito a questioni particolari. È tenuto ad applicare la norma giuridica alla fattispecie, motivo per cui, al fine di garantire la normale e razionale applicazione della legge, dovrà avere i necessari requisiti non solo scientifici ma anche umani che gli consentano di svolgere il suo compito con competenza, maturità ed equilibrio. Non può prescindere da terzietà e imparzialità, al fine di certificare l’assoluta estraneità dalle parti in causa. Al soggetto che è unico nella figura del giudice, gli sviluppi successiva, circa il predicato e il complemento oggetto, sono al plurale. Questi predicati ci aiutano a comprendere l’ampiezza dell’azione del soggetto.

Il primo è indicato attraverso il verbo “accettare”. Si tratta di un una fase che conclude un iter prima iniziato e ormai giunto al termine, quella della necessaria consulenza previa. L’azione del giudice avviene quindi dopo una fase “processuale” (non in senso stretto, ovviamente) che prevede la realizzazione di alcuni passaggi realizzati a livello pastorale, dove per pastorale si possono racchiudere tutti quegli ambiti di aiuto alla coppia, dall’apporto delle scienze umane alla consulenza canonica vera e propria. In altre parole, la certezza che la consulenza previa sia stata correttamente compiuta.

Accanto al primo predicato, troviamo il complemento oggetto a esso connesso, ossia “la causa”. Questa si pone, nel linguaggio giuridico, come il complesso delle controversie pendenti in un processo, sulle quali il giudice è tenuto a pronunciare la sentenza, ed è pertanto il termine usato per indicare l’oggetto e la materia del processo, al fine di contraddistinguerlo dagli altri aspetti formali. La causa è pertanto il punto di arrivo di un percorso che orienterà a una fase in cui entrerà in gioco il ruolo dell’organo giudicante.

Il secondo predicato richiama la dimensione imperativa: “Deve avere”. Si giunge alla motivazione, al fondamento della causa. Non si tratta di ipotizzare se ci siano i presupposti per avviare un procedimento, ma un momento delineato, una constatazione ponderata per cui si deve acquisire una certezza. Prima di giungere alla certezza morale sulla nullità o meno del vincolo matrimoniale, si renderà necessaria una presa di coscienza.

Il secondo complemento oggetto, “matrimonio irreparabilmente fallito”, aiuta a comprendere la portata del predicato. Ma quando il matrimonio è da considerarsi fallito in maniera irreparabile? Da una sommaria ricognizione terminologica, che attinga alle istanze del tempo presente, si potrebbe pensare a unioni stabilite in un passato piuttosto lontano e soppiantate da circostanze successive che hanno portato a “rifarsi una vita”, alla nascita di figli dalla nuova unione, a un trasferimento o cambiamento radicale di vita. Diversi fattori, più o meno inequivocabili, possono far ritenere l’impossibilità di tornare allo stato delle cose stabilite al momento del consenso. La parte finale del canone ci mette innanzi un altro compito del soggetto giudice, introdotto da “in modo che”, un avverbio consequenziale.

Il terzo predicato, “impossibile ristabilire”, appare infatti come il diretto riflesso di una realtà fallita. Non si può “ristabilire”, rimettere in piedi una situazione che ormai non riesce a reggere da sola. Non si può recuperare l’impossibile, o tentare di far tornare all’ordine delle cose una realtà che non si può più definire come tale.

Il susseguente complemento oggetto è uno degli elementi fondamentali della vita coniugale, la “convivenza”. In questo termine si racchiude infatti non solo la coabitazione, ma il condividere un progetto di vita, il mettere in comune alcune o tutte le risorse, il mettersi in gioco, lo scommettere insieme su quanto la vita potrà offrire a entrambi. Si tratta di una serie di elementi, di opportunità, che ormai non si potranno più ripresentare o rimodulare.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

  

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Emanuele Tupputi

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