Pubblico e privato nel sistema processuale canonico: possibilità e limiti di un assodato binomio

privato
Giovanni Domenico Tiepolo, l’incontro di Gesù e Zaccheo, penna e acquerello su carta

L’ordinamento processuale canonico non di rado ricorre alla distinzione tra le cause di bene privato e le cause di bene pubblico per determinare (e giustificare) diversità di trattamento processuale attorno ad una medesima istituzione. In altre parole, un’istituzione o un meccanismo processuale funziona in un modo piuttosto che in un altro se la causa verte su un bene pubblico oppure su un bene privato.

Anche se in una prima lettura il binomio pubblico-privato potrebbe sembrare una scelta comprensibile, muovendo da altre considerazioni ci si potrebbe chiedere se non valga la pena riesaminare talvolta l’uso e le conseguenze processuali di questa distinzione. Non per prescinderne, ma per eventualmente inquadrarla nel suo giusto binario. Ci sia consentito apportare qualche esempio a sostegno delle opinabilissime e magari fallibili riflessioni che seguono.

Alcuni esempi per entrare nel tema in oggetto

Il can. 1598 CIC, nella previsione della possibilità di secretare un atto stabilisce che «nelle cause che riguardano il bene pubblico il giudice, per evitare pericoli gravissimi, può decidere, garantendo tuttavia sempre ed integralmente il diritto alla difesa, che qualche atto non sia fatto conoscere a nessuno». Il pericolo gravissimo di cui tratta il canone è qualcosa di diverso del bene pubblico su cui verte la causa: in altre parole, il pericolo gravissimo può benissimo riferirsi a qualcosa di diverso dal bene pubblico oggetto di discussione.

Stando così le cose, ci si potrebbe chiedere se non possa verificarsi ugualmente un pericolo gravissimo in una causa attinente un bene privato. Ad esempio, immaginiamo che la pubblicazione di un atto metta a rischio l’indennità fisica di una delle parti. Questo pericolo potrebbe verificarsi sia quando la causa verte su di un bene pubblico (si pensi alla nullità del matrimonio) sia quando verte su di un bene privato (la rescissione di un contratto di affitto).

Il can. 1600 CIC

Si può pensare anche al can. 1600 CIC (che tra l’altro vige nel caso di nuova prova in grado di appello), che stabilisce la disciplina per l’acquisizione di nuove prove dopo la conclusio in causa. Il precetto in esame permette al giudice di ordinare altre prove che in precedenza non furono richieste, ma questa facoltà nelle cause di bene privato dipende necessariamente dal fatto che tutte le parti vi acconsentano, mentre nelle cause di bene pubblico è sufficiente udire le parti purché vi sia una ragione grave e sia garantita la rimozione di ogni pericolo di frode o di subornazione.

Tuttavia, se il processo canonico in virtù della sua concezione istituzionale tende formalmente all’accertamento della verità, qualora il giudice ritenga necessaria una prova ad veritatem diudicandam, non sembra eccessivo lasciare la possibilità concreta di tale prova all’acconsentimento delle parti? Non sarebbe da preferirsi il regime della nuova prova in cause di bene privato al regime delle prove nuove in cause di bene pubblico, proprio in virtù della concezione istituzionale del processo quale organismo rivolto all’accertamento della verità, e non chiedere per la prova ex officio et post conclusionem null’altro che l’ascolto delle parti e, caso mai, la ragione grave o una causa giusta? 

Approdare alla verità è un proposito rilevante e vigente anche nelle cause di bene privato. Parrebbe tra l’altro che il pericolo di frode e subornazione interessi soltanto le cause di bene pubblico, come se quelle in cui è in gioco il bene privato non riportassero tali problematiche o fossero scollegate da esse. Paradossalmente, mentre la ragione grave viene richiesta al giudice nelle cause di bene pubblico essa invece è assente nella disposizione che riguarda le cause di bene privato: potrebbe anche chiedersi se non potrebbe essere anche utile un meccanismo impostato alla rovescia, nel senso di richiedere al giudice anche una ragione grave nelle cause di bene privato (dato che si tratta di una causa di bene pubblico, occorre dare più spazio e libertà al giudice, e d’altra parte invece essere più esigenti in una causa di bene privato, garantendo che il giudice giustifichi bene l’uso del suo potere ex officio).

In conclusione

La distinzione adoperata, quantunque per certi versi appaia giustificata, potrebbe tuttavia essere oggetto di un ulteriore e maggiore approfondimento, mettendola in rapporto con la funzione epistemica del processo e con l’orientamento dell’intero strumento processuale al servizio della verità. Magari nella riflessione si è inconsciamente assunto che le cause di bene pubblico sono quelle maggiormente rilevanti per la vita della Chiesa e il suo sistema di giustizia (convinzione magari favorita da una certa corrente che parrebbe quasi ritenere che nella Chiesa tutto rivesta vis pubblica) e quelle di bene privato non lo sono affatto nella misura in cui interessano solo scopi o beni individuali, ma stando così le cose, oltre che operare un chiaro riduzionismo poco combaciante con la realtà delle cose; sembra ci si dimentichi che la giustizia del singolo è tutelata dal can. 221 CIC. Ciò dunque interessa l’intero ordinamento, ossia dare ad ognuno quello che gli spetta è in sé stesso un atto di rilievo pubblico, poiché opus iustitiae pax.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

 

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Marc Teixidor

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