La delega della potestà giudiziale decisoria da parte del Vescovo diocesano

Vescovo
Maarten de Vos, bozzetto di studio preparatorio “il tribunale della zecca brabante” (1594), il dipinto originale è ora conservato alla Rockoxhuis di Anversa

 

Il can. 135, § 3 CIC recita: «Potestas iudicialis, qua gaudent iudices aut collegia iudicialia, exercenda est modo iure praescripto, et delegari nequit, nisi ad actus cuivis decreto aut sententiae praeparatorios perficiendos». Rimane chiaro che l’oggetto del divieto riguarda materialmente la potestà decisoria, non invece quella istruttoria. Tuttavia ci si potrebbe chiedere se il divieto riguardi soggettivamente anche il Vescovo diocesano, o se invece questo possa ritenersi non vincolato dal divieto. Non si pone qui la questione sulla possibilità di delega della potestà giudiziaria decisoria che fa capo al Romano Pontefice, poiché è ammessa la possibilità di delega in tale caso. Il quesito riguarda appunto la possibilità di delega della potestà giudiziaria decisoria da parte dei Vescovi diocesani. La questione non è pacifica in dottrina e possono trovarsi due linee in merito, che si espongono sinteticamente in seguito.

Prima lettura della norma

Da una parte, alcuni hanno sostenuto che il divieto del can. 135, § 3 CIC riguarda anche il Vescovo diocesano. A favore di tale lettura sarebbe il fatto che il Codice del 1983 non prevede espressamente, con una apposita rubrica, l’esistenza dei giudici delegati, come invece previsti nel Codice del 1917. Il can. 391, § 2 CIC, nell’indicare espressamente l’esercizio personale da parte dal Vescovo oppure l’esercizio attraverso il Vicario giudiziale e i giudici, escluderebbe appunto i fenomeni di delegazione.

Seconda lettura della norma

Dall’altra, altri sostengono che il divieto di delega della potestà decisoria non riguarderebbe il Vescovo diocesano, ma solo gli uffici giudiziari vicari e, a fortiori, i giudici delegati. Di conseguenza, il Vescovo potrebbe nominare giudici delegati ad casum per la soluzione di una controversia di sua competenza. A sostegno di tale lettura si veda il fatto che nell’iter di codificazione si chiese appunto che fosse conservata tale possibilità. A ciò si aggiunge che il Codice del 1983 prevede l’esistenza del giudice delegato quando disciplina la riconvenzione e la perpetuatio iurisdictionis come effetto della citazione (cann. 1512, 3o e 1495 CIC).

E il can. 1427, § 2 CIC prevede che la controversia tra due provincie (o due monasteri sui iuris) sia giudicata in primo grado dal Moderatore Supremo o da un suo delegato: sarebbe strano che il Vescovo diocesano (che ha nativamente la triplice potestà e si trova alla guida di una Chiesa particolare) si trovi più limitato che il Moderatore Supremo di un Istituto religioso clericale di diritto pontificio, al quale per ragioni piuttosto operative e logistiche viene affidata tale potestà giudiziaria (si ricordi tra l’altro che il diritto proprio potrebbe prevedere altrimenti, a norma del can. 1427, §3 CIC).

Una auspicata e definitiva interpretazione 

Da quanto sinora esposto, pare poter essere condivisibile la seconda interpretazione, sostenuta tra l’altro dalla maggioranza della dottrina processualista. Potrebbe dunque affermarsi che la delega di potestà decisoria da parte dal Vescovo diocesano è possibile giuridicamente, sebbene esso non significa che tale delega sia consigliabile semper et in abstracto. Occorre però annotare che la prima posizione appare anche fondata e giustificata, non di rado dinanzi al divario alcuni suggerirono che il tema ben meritava un’interpretazione autentica che chiarisse in modo definitivo la questione.

«Vicarietà»

La tecnica della «vicarietà» è più idonea a garantire il c.d. «giudice naturale predeterminato dalla legge», istituto appartenente al due process of law (e che si lega alla tutela di beni quali l’indipendenza e la terzietà). Dal canto suo, la delega invece fa sorgere il rischio di creare tribunali speciali o ad casum, il che poco combacia con la predeterminazione ex ante et ex lege del giudice, e può talvolta dare l’impressione di un esercizio magari arbitrario della giurisdizione a scapito delle garanzie che impone il concetto di giusto processo.

La possibilità della delega

Non va escluso che in certi casi la delega potrebbe essere uno strumento di aiuto per incanalare l’esercizio della giurisdizione quando diventa impossibile il suo espletamento attraverso gli organi vicari. Si pensi ad esempio ad una situazione di mancanza di giudici diocesani a causa di ricusazioni fondate oppure alla necessità di allontanare una causa dal tribunale diocesano perché in casu può risultare compromessa l’indipendenza e/o la terzietà. Tuttavia occorre non dimenticare che l’ordinamento permette la richiesta di dispensa di requisiti per la nomina di giudici alla Segnatura Apostolica e allo stesso tempo ad essa può anche chiedersi un eventuale commissione o proroga della competenza a favore di un altro tribunale.

Di conseguenza, la delega della potestà decisoria, quantunque possa ritenersi giuridicamente possibile, potrebbe ritenersi una sorte di ultima ratio in tema di organizzazione della giurisdizione. Ci si potrebbe addirittura chiedere se non valga la pena limitare legalmente de iure condendo la possibilità di delega, onde favorire più decisamente la tecnica vicaria, più consona con la predeterminazione legale del giudice.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

 

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Marc Teixidor

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