Gian Lorenzo Bernini, particolare della statua della Beata Ludovica Albertoni, 1671 circa, cappella Paluzi-Albertoni, chiesa di San Francesco a Ripa, Roma
La «concezione istituzionale del processo» può insegnare qualcosa alla scienza processuale sulla natura del processo?
Sono passati quasi ottant’anni da quando Pio XII, nel suo discorso alla Rota Romana del 1944, tratteggiò la c.d. «concezione istituzionale del processo», approfondita dopo magistralmente dalla dottrina processuale canonica e diventata un punto fermo anche a livello magisteriale, come attesta il recente discorso di Papa Francesco alla Rota Romana del 2022 e di cui Vox ha parlato QUI. Quantunque questa visione del processo possa sembrare unicamente utile ai cultori del diritto processuale canonico può essere anche stimolante per i cultori del diritto processuale secolare.
La natura giuridica del processo
Nella dogmatica processuale è stata oggetto di discussione quale sia la natura giuridica del processo. Muovendo da posizioni di indubbio sapore privatista, si affermò che il processo sarebbe un contratto o un quasi contratto (come ricorda Couture nei suoi Fundamentos del derecho procesal civil). Posteriormente alcuni esponenti della dottrina tedesca, con lo scopo di superare gli evidenti limiti di siffatta lettura, ritennero il processo un rapporto giuridico. A questa impostazione aderì, grazie all’influsso di Chiovenda, il Cardinale Roberti, sebbene non mancò di evidenziarne i limiti. Tuttavia, la teoria del rapporto fu oggetto di critiche severe da parte della dottrina secolare, dato che non riusciva a spiegarne alcuni elementi difficilmente inquadrabili nel rapporto, quale ad esempio la posizione e i ruoli dell’organo giusdicente.
Due proposte e i limiti di queste ultime
Nella dottrina canonica, non mancarono voci che evidenziarono i limiti di questo modello, come notò ad esempio Cabreros de Anta. Con il tempo la dottrina processuale conobbe altre due proposte. La prima, a quanto pare suggerita da Goldschmith, concepì il processo come una situazione giuridica, anzi, una successione di situazioni giuridiche. La seconda, sviluppata dal processualista spagnolo Jaime Guasp (con l’influsso di alcuni giuspubblicisti francesi come Hauriou e Renard), spiegò il processo come una istituzione, ovvero, come un insieme di attività tra loro intrecciate per un’idea-fine comune, oggettivo ed esterno alla quale aderiscono, indipendentemente da quello che sia la loro finalità specifica o le diverse volontà dei soggetti che pongono tali attività.
Mentre la teoria della situazione ha avuto qualche successo, la teoria dell’istituzione non è stata troppo seguita. Paradossalmente, un modello simile alla teoria dell’istituzione quale la «concezione istituzionale del processo» ebbe successo nell’interpretazione del processo canonico, quel successo che mancò invece al modello omonimo in ambito civile.
Per concludere
Il modello dell’istituzione (Hauriou, Gerard, Guasp) offriva infatti una costruzione dove l’unico punto mancante era proprio quale fosse quell’idea o fine che riusciva a dare finalizzazione organica a tutta l’istituzione. La concezione istituzionale del processo canonico riusciva proprio ad offrire tale tassello: il fine oggettivo extra institutionem che ne spiega il suo strutturale orientamento è proprio l’accertamento in veritate et iustitia. Non è dunque strano che la dottrina processuale canonica (De Diego-Lora, Rodríguez-Ocaña, Llobell, Arroba Conde) abbia apprezzato il legame tra entrambe le costruzioni.
La concezione istituzionale del processo e il favor veritatis che dà ragione della sua organicità, può offrire alla scienza processuale secolare una ulteriore opportunità per la teoria dell’istituzione, offrendo l’esperienza maturata di un modo di concepire il processo come un’istituzione formalmente orientata all’accertamento della verità.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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