L’art. 197 della costituzione apostolica Praedicate evangelium conferma la competenza della Segnatura Apostolica per il controllo giurisdizionale degli atti amministrativi dei dicasteri della Curia Romana, aggiungendovi anche (a differenza di quanto statuiva l’art. 196 della Pastor Bonus) la Segreteria di Stato. La possibilità di un controllo giurisdizionale sugli atti dell’amministrazione ecclesiastica è una delle garanzie più essenziali per la tutela dei diritti fondamentali dei fedeli. In passato, il fatto di rimettere alla stessa amministrazione il controllo della sua propria attività – come avvenne col sistema del superiore-giudice dal 1910 fino al 1967 – si rivelò, infatti, inadeguato ai fini della migliore tutela dei diritti dei fedeli.
Tuttavia, tale controllo giurisdizionale è, ad oggi, precluso nel caso dei decreti extragiudiziali in tema di delitti riservati al Dicastero per la Dottrina della Fede. In questi casi, l’art. 24, §1 delle Normae de delictis reservatis (cioè, la legge che disciplina la procedura da seguire in queste cause, modificata nel mese di dicembre del 2021) stabilisce che «contro gli atti amministrativi singolari della Congregazione per la Dottrina della Fede nei casi dei delitti riservati, il Promotore di Giustizia del Dicastero e l’accusato hanno il diritto di presentare ricorso entro il termine perentorio di sessanta giorni utili, alla medesima Congregazione, la quale giudica il merito e la legittimità, eliminato qualsiasi ulteriore ricorso di cui all’art. 123 della Costituzione Apostolica Pastor bonus [l’hodierno art. 197 della Praedicate Evangelium]». In pratica, viene preclusa la possibilità del contenzioso-amministrativo presso la Segnatura Apostolica contro i decreti penali extragiudiziali nelle cause per i delitti riservati al Dicastero per la Dottrina della Fede.
La scelta può risultare eccessiva se si considera che attraverso questi atti amministrativi di natura penale, il Dicastero per la Dottrina della Fede – che è proprio questo, un dicastero della curia romana – può imporre pene assai gravi, quali la dimissione dello stato clericale. Ci si aspetterebbe che questa non fosse l’ultima parola, e se lo fosse, che restasse l’ultima parola in sede amministrativa. Invece, allo stato attuale delle cose, tali atti non sono sindacabili giurisdizionalmente. Tutto finisce all’interno dell’amministrazione, anzi all’interno della stessa amministrazione che ha emanato il provvedimento, perché il ricorso tratteggiato nell’art. 24, §1 delle Normae è un rimedio prettamente amministrativo: di fatto, esso consiste in una richiesta di “ravvedimento” presentata allo stesso dicastero autore del decreto. Si potrebbe parlare di “ricorso gerarchico” se solo fosse possibile individuare un superiore, ma poiché non è questo il caso, pare configurarsi come una sorta di rimostranza. In altre parole, sembra essersi rispolverato il vecchio sistema del superiore-giudice per applicarlo proprio in un ambito dove il controllo giurisdizionale parrebbe più che mai necessario.
Fermo restando il tenore del dato normativo – per il quale, allo stato, bisogna limitarsi a prendere atto della scelta del Legislatore – forse sarebbe opportuno riflettere sulla possibilità di prevedere in un futuro (un futuro che speriamo non sia troppo lontano) il controllo giurisdizionale di questo tipo di atti. Come si è già suggerito in dottrina, una via percorribile sarebbe quella di rimettere alla Segnatura Apostolica il potere di sindacare anche questi atti amministrativi attraverso il contenzioso-amministrativo, come di recente ha suggerito Giovanni Parise in suo breve e suggestivo saggio sulla Segnatura Apostolica dopo Praedicate Evangelium.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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