Il Rescriptum ex audientia Sanctissimi in deroga al can. 588 §2 C.J.C. Riflessioni sulla Sacra Potestas

sacra potestas
San Benedetto porge la sua Regola a san Mauro e ad altri monaci; miniatura francese da un manoscritto della Règle de St. Benoît (Regula Benedicti), abbazia di st. Gilles, 1129

Il Rescriptum

Il 18 maggio 2022 è stata comunicata la pubblicazione del Rescriptum ex audientia Sanctissimi a firma del Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica con il quale il Supremo Legislatore autorizza il medesimo Dicastero a consentire una deroga al §2 del can. 588 CIC, fermo il can. 134 §1.

Nello specifico il Pontefice concede alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica la facoltà di autorizzare, discrezionalmente e nei singoli casi, ai Sodali non chierici, il conferimento dell’ufficio di Superiore maggiore in Istituti religiosi clericali di diritto pontificio e nelle Società di vita apostolica clericali di diritto pontificio della Chiesa latina e da essa dipendenti. Il Rescriptum consta di quattro numeri che brevemente analizziamo di seguito. Il primo numero riporta il caso di un Sodale non chierico di un Istituto di vita consacrata o Società di vita apostolica clericale e di diritto pontificio, nominato Superiore locale dal Moderatore Supremo con il consenso del suo Consiglio. Questa è la prima casistica nella quale la Congregazione può discrezionalmente autorizzare la nomina. Segue il caso del Sodale non chierico di un Istituto di vita consacrata o Società di vita apostolica clericale e di diritto pontificio nominato Superiore maggiore dopo aver ottenuto licenza scritta dalla Congregazione e su istanza del Moderatore Supremo e con il consenso del suo Consiglio. Terzo ed ultimo caso, quello del Sodale non chierico di un Istituto di vita consacrata o Società di vita apostolica clericale e di diritto pontificio eletto Moderatore Supremo o Superiore maggiore a norma del diritto proprio, la cui elezione necessita di conferma per licenza scritta, da parte della Congregazione. Per ognuna di queste casistiche il n.4 del Rescriptum prescrive che sia concessa la riserva di valutare il singolo caso e le motivazioni addotte dal Moderatore supremo o dal Capitolo generale.

La decisione del Legislatore Supremo consta di alcuni caratteri imprescindibili, forse non immediatamente evidenti, ma meritevoli di menzione. Se si legge il Rescriptum alla luce dei cann. 620; 622 CIC, i quali parlano di potestà di governo in capo ai Superiori maggiori, sorge l’interrogativo circa il legame fra potestà di governo e Ordine Sacro all’interno dell’Ordinamento canonico, ovvero la potestà di governo e la potestà di ordine. La prima derivante dalla missio canonica, la seconda, appunto, dall’Ordinazione. Ciò detto, giova ricordare che, nel Diritto canonico, è abile ad esercitare la potestà di governo che propriamente è nella Chiesa per istituzione divina e viene denominata anche potestà di giurisdizione, coloro che sono insigniti dell’Ordine sacro a norma delle disposizioni del diritto, tale potestà è esercitata in foro esterno e in foro interno.

Potestas Ordinis e Potestas Regiminis

Senza voler calarsi nello specifico di una riflessione ecclesiologica circa la distinzione tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione, corre l’obbligo di ricordare che la distinzione tra le due potestà è il risultato di una riflessione, durata quasi un millennio, tesa a risolvere due problemi costituzionali di fondo: quello della validità degli atti sacramentali posti dai ministri, che in un modo o nell’altro avessero rotto con la comunione ecclesiale, e quello della validità delle ordinazioni assolute, prevalse nella prassi della Chiesa latina malgrado la proibizione del Concilio di Calcedonia [1]. Non era in dubbio che un vescovo scomunicato, o deposto, non potesse più essere considerato come legittimo pastore del Popolo di Dio, ma più difficile fu capire se potesse ancora battezzare e consacrare validamente [2], fu poi Graziano e la scuola dei decretisti, progressivamente, a distinguere nell’attività dei ministri due poteri: un potere di ordine e un potere di giurisdizione, diversi, secondo il Mörsdorf [3], sia per la modalità di trasmissione che per la loro stabilità e funzione. Successivamente, con la Scolastica prevalse l’idea che la potestas ordinis avesse come ambito di intervento quello concernente il Corpo reale di Cristo, mentre il potere di giurisdizione avesse come ambito il Corpo mistico di Cristo, inteso, in senso abbastanza riduttivo quale ambito extra sacramentale o giuridico della vita della Chiesa. È in questa prospettiva che la distinzione da puramente formale divenne concretamente materiale, provocando una spaccatura nella sacra potestas e nella potestà della Chiesa. Si arrivò così nell’alto medioevo a distinguere nella Chiesa, e ad opporre tra di loro, un ambito sacramentale, all’interno del quale agisce solo il potere di ordine, ed un ambito extra sacramentale dove agisce solo il potere di giurisdizione. Tralasciando il Basso Medioevo e il periodo immediatamente successivo al Concilio di Trento per la prassi adottata dai vescovi principi di governare solo in virtù della potestà di giurisdizione, una svolta circa la riflessione sulla potestà si ebbe verso la metà del secolo scorso, quando fu ulteriormente offuscato il significato originale della distinzione tra ordine e giurisdizione, innestando nella dottrina teologica e canonistica classica una di estrazione maggiormente calvinista che assegnò ad ognuno dei tria munera un ambito materiale specifico di attività, trasformandoli in tre veri e propri poteri. Da ciò ne deriva che il binomio potestà d’ordine/potestà di giurisdizione divenne un trinomio: ordine, magistero, giurisdizione [4]. Tale posizione ovviamente non può essere avallata, basti pensare alla difficoltà di distinguere la potestà d’ordine e quella di magistero in due ambiti totalmente differenti o comunque alla più generica mancanza di possibilità di corrispondenza dell’utilità sistematica adottata anche dal Concilio con la solidità di una definizione dogmatica.

La sfida della canonistica attuale, anche alla luce delle più recenti riforme del Supremo Legislatore è indubbiamente quella di stabilire quale rapporto sussista tra i tria munera del Divino Fondatore e la potestas ordinis ovvero se ancora si mostri possibile la conservazione di una distinzione dualistica delle potestà così come ce la consegna la canonistica classica.

Una sintesi di unicità ed unità

È interessante provare a sintetizzare tesi ed antitesi di questa vexata quaestio, per meglio comprendere anche il Rescriptum del Romano Pontefice.

Si potrebbe pensare di recuperare una tesi in fondo già esposta dal succitato Mörsdorf, che esprime una unicità e al contempo una unità della sacra potestas. Perché questo sia possibile, da un lato si devono accettare le indicazioni date dal Concilio Vaticano II sull’unità della potestas sacra, indicazioni che hanno orientato ad una soluzione rigorosamente sacramentale dell’origine della stessa, e dall’altra l’opportunità o forse la necessità di salvare, almeno a livello concettuale, la tradizionale distinzione tra ordine e giurisdizione, che oltre ad essere profondamente radicata nella teologia (latina), sembra anche insostituibile. Certamente la distinzione tra le due potestà, di ordine e di giurisdizione, ha il proprio fondamento in due elementi cardine e fondamentali della Chiesa: il Sacramento e la Parola. E proprio questa intuizione permette di varcare la soglia dell’insuperabilità rispetto al limite connaturale al carattere funzionale del linguaggio giuridico [5]. Cosa sono il Segno (sacramentum) e la Parola? Potremmo definirle quali modalità comunicative di Dio utili alla Rivelazione, dunque strumenti con una efficacia sacramentale oggettiva nell’economia della salvezza. La Parola infatti porta in sé, intrinsecamente, un’efficacia salvifica effettiva che prescinde dall’accoglienza, strutturalmente ordinata verso il Segno simbolico quale elemento indispensabile affinché questo acquisti efficacia sacramentale [6]. La Parola ha valore salvifico sacramentale (nell’economia della salvezza) solo se pronunciata con la tensione a realizzarsi, ovvero incarnarsi, nel segno sacramentale, analogamente al mistero dell’Incarnazione. Due elementi, quindi, dotati di una reciprocità strutturale che ci dicono contemporaneamente una unicità ed una unità. In questa ratio risiede anche la ragione ultima per la quale l’unica sacra potestas si manifesta nella duplicità espressiva della potestà d’ordine e di giurisdizione, modalità istituzionali canonistiche. Infatti nella prima prevale la modalità comunicativa del segno sacramentale, nella seconda la modalità comunicativa del linguaggio, ossia della Parola e per questo anche detta iuris dictio. Compreso ciò si comprenderà anche che come Sacramento e Parola operano anche in modo autonomo, così pure la potestà di ordine e quella di giurisdizione possono operare autonomamente. Per l’analogia di cui prima: come la Chiesa può predicare senza l’azione sacramentale, così anche può porre atti di giurisdizione senza che vi sia stabilito un nesso immediato con il sacramento dell’Ordine. Sussisterà anche in tale caso un nesso strutturale per la propensione dell’una all’incarnarsi nel segno sacramentale [7].

Un ultimo accenno utile può essere riferito al concetto di validità degli atti della Sacra potestas, dunque tanto per quella di ordine quanto per quella di giurisdizione. L’orizzonte entro cui muoversi per un discernimento relativo alla validità è senza ombra di dubbio la communio. La validità degli atti sacramentali e giurisdizionali, essendo fondata sull’esistenza stessa della Sacra potestas, non può essere determinata ad arbitrio di alcuno, in quanto strettamente dipendente dalla verità ontologica entro la quale la Chiesa stessa si realizza, posto un rapporto identitario (seppure non adeguato) tra Chiesa e Sacra potestas, ovvero in che misura la Chiesa, oltre a fissare i limiti entro lo ius divinum, per i quali un atto sacramentale sia valido o meno, possa anche stabilire clausole invalidati il diritto mere ecclesiasticum. E come detto, l’orizzonte in cui ciò avviene è quello della comunione. Infatti, la  Chiesa non può procedere allo stesso modo di una istituzione statale, che affronta il problema dell’efficacia del proprio potere in termini rigorosamente positivistici, ovvero sconnessi da una oggettività ontologica propria alla natura delle cose. Nella sua espressione sia sacramentale che giurisdizionale, la validità di un atto della Sacra potestas non può essere risolta da una semplice clausola giuridica se non perché quest’ultima risulti il riflesso di una soluzione primariamente ontologica. Tanto premesso, pacificamente si può affermare che l’esercizio della potestà sacra, tanto nella sua espressione sacramentale quanto in quella giurisdizionale, può essere ritenuto invalido solo nella misura in cui si realizzasse al di fuori del grado minimo di comunione che garantisce l’esistenza di una realtà ancora definibile come realtà ecclesiale. Solo l’assenza degli elementi oggettivi della communio rende inefficace, cioè invalida la potestas.

Note

[1] Come stabilisce il can. 6 del Concilio di Calcedonia.

[2] cfr. K. Mörsdorf, Die Entwicklung der Zweigliedrigkeit der kirchlichen Hierarchie, in MThZ, 3 (1951).

[3] cfr. Weihegewalt und Hirtengewalt in Abgrenzung und Bezug, «Miscellanea Comillas», 16 (1951), 95ss; Id., Heilige Gewalt, in Sacramentum Mundi, II, Freiburg- München-Wien 1968, 582ss.

[4] cfr. K. Nasilowski, Distinzione tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione dai primi secoli della Chiesa sino alla fine del periodo dei decretisti, in Potere di ordine e di giurisdizione. Nuove prospettive, Roma 1971, 89ss.

[5] cfr. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale. Aspetti storico-giuridici e metodologico-sistematici della questione, in La Scuola Cattolica, XCVI (II), n. 29.

[6] cfr. L. Scheffczyk, Von der Heilsmaeth des Wortes, München 1966, 264.

[7] cfr. E. Corecco, Natura e struttura della «Sacra Potestas» nella dottrina e nel nuovo Codice di diritto canonico, in Ius et Communio. Scritti di Diritto Canonico, I, 480.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

 

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Cristian Lanni

Nato nel 1994 a Cassino, Terra S. Benedicti, consegue, nel 2013 la maturità classica. Iscrittosi nello stesso anno alla Pontificia Università Lateranense consegue la Licenza in Utroque Iure nel 2018 sostenendo gli esami De Universo Iure Romano e De Universo Iure Canonico. Nel 2020 presso la medesima università pontificia consegue il Dottorato in Utroque Iure (summa cum laude) con tesi dal titolo "Procedimenti amministrativi disciplinari e ius defensionis", con diritto di pubblicazione. Nel maggio 2021 ha conseguito il Diploma sui "Delicta reservata" presso la Pontificia Università urbaniana, con il Patrocinio della Congregazione per la Dottrina della Fede e nel novembre 2022 il Baccellierato in Scienze Religiose presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, presso cui è iscritto ai corsi per la Licenza. Dal luglio 2019 è iscritto con nomina arcivescovile all'Albo dei Difensori del Vincolo presso la Regione Ecclesiastica Abruzzese e Molisana, operante nel Tribunale dell'Arcidiocesi di Chieti, dal settembre dello stesso anno è docente presso l'Arcidiocesi di Milano. Nello stesso anno diviene Consulente giuridico presso Religiosi dell'Arcidiocesi di Milano. Dal giugno 2020 è iscritto con nomina arcivescovile all'Albo degli Avvocati canonisti della Regione Ecclesiastica Lombarda. Dal 2021 collabora con il Tribunale Ecclesiastico Interdiocesano Sardo e come Consulente presso vari Monasteri dell'Ordine Benedettino. Dal 13 novembre 2022 è Oblato Benedettino Secolare del Monastero di San Benedetto in Milano. Dal 4 luglio 2024 è membro dell'Arcisodalizio della Curia Romana.

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