Il problema della configurabilità della responsabilità di vescovi e diocesi sugli abusi sessuali commessi da chierici

responsabilità
Jacopo Negretti, Allegoria della Giustizia e della Pace, 1620, olio su tela, galleria estense, Modena

L’ipotesi dell’articolo 2049 C.C.

Ci pare opportuno, a seguito di varie sentenze dei giudici italiani [1], porci questa domanda: la Chiesa cattolica può essere chiamata, secondo le norme civilistiche, al risarcimento dei danni in favore della vittima di abusi?

Che qualcuno possa essere chiamato a rispondere non solo del fatto proprio ma anche del fatto commesso da altre persone alle quali sia legato da particolari rapporti contrattuali è un principio antichissimo, se da un lato la regola generale è che la responsabilità è personale – a tal proposito il Codex giustineaneo riportava tale brocardo «Peccata igitur suos teneant auctores: nec ulterius progrediatur metus, quam reperiatur delictum» [2] – dall’altro però occorre anche considerare che ogni regola ha la sua eccezione. Verso la fine del ‘700 poteva dirsi acquisita nel diritto comune l’opinione che il preponente rispondesse per il fatto dell’institore, che tale responsabilità si fondasse su una colpa presunta, consistente nell’aver scelto male i propri collaboratori, e che la medesima responsabilità cessava ove il fatto illecito fosse stato commesso dall’institore agendo al di fuori dell’incarico ricevuto [3].

Responsabilità vicaria

L’art. 2049 del codice civile infatti, statuisce che «i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti». Si tratta di una vera e propria responsabilità oggettiva indiretta, chiamata anche responsabilità vicaria, in quanto la legge non consente alcun tipo di prova liberatoria a carico di padroni e committenti, ciò implica che prescinde del tutto da un eventuale culpa in eligendo o in vigilando del datore di lavoro, non potendo essere ammessa prova liberatoria avente ad oggetto l’assenza di colpa [4]. La norma è applicabile laddove sussistano tre condizioni: un fatto illecito posto in essere da un preposto; un rapporto di preposizione individuato all’interno dell’organizzazione economica; la sussistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra le mansioni esercitate e il fatto illecito posto in essere.

Il fine della norma è quello di accollare i rischi in capo a quei soggetti che, trovandosi in posizione apicale in quanto datori di lavoro, possono farvi fronte e contestualmente garantire un risarcimento del danno alle vittime tramite la garanzia rappresentata da un patrimonio molto più consistente rispetto a quello del singolo.

La fattispecie in oggetto è applicabile nel diritto canonico?

Posto che il giudice civile non può assolutamente sostituirsi all’autorità della Chiesa nell’applicare e interpretare il diritto canonico come se fosse parte dell’ordinamento dello Stato. Nel contesto del diritto canonico però un’idea del genere risulta pressoché utopistica, visto che l’ordinamento canonico rifiuta tassativamente qualsiasi forma di responsabilità oggettiva – e in generale di responsabilità senza colpa – non è infatti configurabile una responsabilità civile del Vescovo per i delitti commessi dal “suo” chierico. Ciò si evince chiaramente dalla Nota esplicativa del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi del 2004, la quale sottolinea che il rapporto intercorrente tra il Vescovo diocesano e i suoi presbiteri, sotto il profilo giuridico, è irriducibile sia al rapporto di subordinazione gerarchica di diritto pubblico nel sistema giuridico degli Stati, sia al rapporto di lavoro dipendente tra datore di lavoro e prestatore d’opera [5].

Per prima cosa, non è corretto considerare la Chiesa come un’azienda, e di conseguenza il presbitero, in senso stretto, non può essere visto come un lavoratore subordinato al Vescovo. Inoltre, il conferimento di un incarico ecclesiastico non rientra nel concetto di preposizione, poiché l’art. 2049 del codice civile attribuisce la responsabilità ai datori di lavoro e ai committenti sulla base del rischio d’impresa. È evidente, però, che le diocesi, da un lato, non sono imprese e, dall’altro, non operano con finalità di lucro. Infine, dalla lettura della norma risulta chiaro che affinché si configuri una responsabilità, deve sussistere un interesse di natura utilitaristica, elemento assente nella gerarchia ecclesiastica. Infatti, i ministri di culto non agiscono nell’interesse della diocesi cui appartengono, ma svolgono un ruolo di servizio all’interno della comunità ecclesiale, con l’obiettivo di perseguire un bene comune piuttosto che un vantaggio personale [6].

Possibile responsabilità ex art. 2043 C.C.

Anche se il diritto canonico prevede numerose norme che attribuiscono al Vescovo poteri e obblighi nei confronti dei chierici incardinati nella sua diocesi, non esiste tuttavia alcuna norma che imponga al Vescovo di sorvegliare complessivamente le loro condotte, e segnatamente, le condotte estranee al loro ministero. In altre parole non è previsto alcun obbligo generale di sorveglianza sulla loro condotta personale [7].

A nostro avviso, la responsabilità civile del Vescovo, potrebbe configurarsi solo nel caso in cui, pur essendo a conoscenza dei fatti di pedofilia, ometta qualsiasi intervento ovvero affidi al chierico un incarico pastorale in cui le molestie e gli abusi possano essere reiterati [8], oppure si limiti a trasferirlo senza adottare le necessarie misure cautelari e disciplinari volte a prevenirne la ripetizione, agendo unicamente per evitare il pubblico scandalo [9]. In questi casi però si tratterebbe, comunque, non già di una responsabilità oggettiva ma di una responsabilità per fatto proprio e quindi soggettiva del Vescovo, ex art. 2043 c.c., che espone coerentemente la Diocesi all’azione risarcitoria dei soggetti danneggiati.

Note

[1] Ci riferiamo, in particolare, all’Ordinanza della I Sezione penale del Tribunale di Lecce dell’8 ottobre 2012 e alla sentenza della I Sezione civile del Tribunale di Bolzano, n. 679 del 21 agosto 2013.

[2] P. krüger– Th. Mommsen – R. Schöll – w. kroll, (a cura di), Corpus Iuris civilis, vol II: Codex Iustinianus, Berolini, 1877, p. 869, 9.47.22.

[3] R. J. Pothier, Trattato delle obbligazioni, Fratelli Vignozzi e Nipote, Livorno, 1841, p. 94.

[4] Cfr. Repubblica Italiana. Cassazione Civile. Sezione III, 16 marzo 2010, n. 6325; Repubblica Italiana. Cassazione Civile. Sezione III, 29 agosto 1995, n. 9100.

[5] Cfr. Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Nota esplicativa del 12 febbraio 2004, in Communicationes, XXXVI, 2004, pp. 33-38.

[6] A. M. Pinelli, Il problema della configurabilità della responsabilità oggettiva delle diocesi e degli ordini religiosi per gli abusi sessuali commessi dai loro chierici e religiosi, in Ius Ecclesiae, vol. 32, n.1, 2020, pp. 120-121.

[7] Cfr. L. Eusebi, Responsabilità morale e giuridica del governo ecclesiale: il ruolo dei Vescovi in rapporto ai fatti dei chierici nel Diritto canonico e nel Diritto italiano, in Apollinaris, n. 83, 2010, pp. 227-238.

[8] Cfr. A. Licastro, Danno e responsabilità da esercizio del ministero pastorale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 1 maggio 2010, p. 29.

[9] Cfr. P. Consorti, La responsabilità della gerarchia ecclesiastica nel caso degli abusi sessuali commessi dai chierici, fra diritto canonico e diritti statuali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2013, p. 10.

 

“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”

(S. Giovanni Paolo II)

 

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Loading

Picture of Fabiola Lacagnina

Fabiola Lacagnina

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Iscriviti alla Newsletter