Un bilancio sinodale
Terminato il Sinodo sulla Sinodalità con la pubblicazione del Documento finale, approvato da Papa Francesco, pur senza l’adozione di un’Esortazione Apostolica, è opportuno tirare le somme sulle tracce che quest’esperienza di comunione ha lasciato nel diritto canonico.
Mi soffermerò sul versante costituzionalistico della sinodalità, dal momento che il processo ha coinvolto il nucleo dei diritti e dei doveri dei fedeli, in particolare quelli che attengono al loro rapporto con la gerarchia, di cui ai cann. 212 CIC e 15 CCEO.
Queste disposizioni formalizzano quanto enucleato in LG, 37, declinando i tre principî che regolano le relazioni tra fedeli e Pastori, prevedendo, rispettivamente, il dovere di obbedienza, il diritto di petizione e il diritto-dovere di opinione. Finalità ultima del riconoscimento di tali prerogative del Popolo di Dio è l’edificazione del Corpo Mistico di Cristo, che si realizza, da un lato, per la comunione gerarchica tra le diverse membra, dall’altro, per la dimensione del servizio.
Pertanto, all’obbedienza che deve essere prestata corrisponde un dovere di cura da parte dei Pastori, che si estrinseca in un vincolo giuridico di ascolto delle necessità e delle esigenze manifestate.
Il diritto di petizione e il diritto di opinione
La formulazione ampia e generica che contraddistingue il can. 212 §2 è il risvolto giuridico della necessità di non frapporre ostacoli a che ciascuno possa entrare in contatto con i Pastori per esprimere le proprie esigenze: credo che sia da valorizzare, in prospettiva sinodale, il proprium della petizione, anche per distinguerlo dalla ben più precisa disposizione contenuta nel §3.
In effetti, non è agevole trovare la linea di demarcazione tra le opinioni personali per il bene della Chiesa e le necessità spirituali e ai desideri dei fedeli. Ognuno chiede, infatti, ciò che ritiene essere per sé buono e, manifestando il desiderio, indirettamente espone una propria visione sulla realtà.
Propongo di prendere le mosse da una serie di distinzioni operate dal CIC, che possono offrire una chiave di lettura: in primo luogo, la petizione è configurata esclusivamente come un diritto, mentre l’opinione è sì un diritto, che può convertirsi in obbligo; in secondo luogo, la petizione può provenire da chiunque e non gode in sé di una considerazione particolare a seconda del soggetto che la presenta, mentre l’opinione si qualifica per la competenza, la conoscenza e il prestigio di chi la manifesta; in terzo luogo, la petizione ha come destinatari solo i Pastori della Chiesa, mentre l’opinione può, con le dovute reverenza, prudenza, obbedienza, e attenzione al bene comune, essere espressa anche agli altri fedeli; per ultimo, l’oggetto della petizione è un bene personale, che dovrebbe, attraverso l’opera di discernimento dei Pastori, ridondare a beneficio di tutti, mentre l’opinione si caratterizza (o dovrebbe caratterizzare) per l’immediata proiezione all’utilità collettiva.
Il Sinodo come esperienza dello Spirito e non come svolta democratica
Quest’ultima distinzione apre la strada alla riflessione sui documenti sinodali e sul processo avviato dall’attuale Pontefice: le recenti riforme, che hanno consentito di ampliare il numero dei soggetti da consultare e hanno reso il Sinodo dei Vescovi un organo deputato alla mediazione tra istanze dal basso e discernimento dall’alto, non sono dirette a una trasformazione in senso democratico della Chiesa.
Basterebbero le parole rivolte da Papa Francesco in apertura del percorso a fugare ogni dubbio, anche perché richiamano proprio il tema delle opinioni: «Ribadisco che il Sinodo non è un parlamento, che il Sinodo non è un’indagine sulle opinioni; il Sinodo è un momento ecclesiale, e il protagonista del Sinodo è lo Spirito Santo. Se non c’è lo Spirito, non ci sarà Sinodo».
Il diritto di petizione, anche più del diritto-dovere di manifestare le proprie opinioni, può essere, dunque, il modello a cui riferirsi per formalizzare la situazione giuridica del fedele chiamato a esprimersi nelle consultazioni: alla massima libertà delle forme e all’orizzontalità della fase propedeutica – che si limita a prevedere facilitatori, e non dei censori – si accompagna una intensa fase di discernimento, nella quale è prevalente la dimensione verticale.
Questa ricostruzione non vuole sminuire l’importanza del tipo di atto che viene in rilievo, quasi che la petizione abbia un’importanza minore o meno efficace dell’opinione; in un’ottica di giustizia, il diritto di petizione, sebbene non postuli un vincolo in capo all’autorità di concessione del bene richiesto, ha come corrispondente un preciso obbligo di studio e approfondimento[7], proprio per il fatto che essa proviene da uno o più membri del Popolo di Dio, anzi, nella misura in cui trae origine non da singoli o gruppi isolati ma da rappresentanze, quanto più inclusive, delle Chiese particolari, acquisisce maggior spessore ecclesiologico e giuridico.
Il canale della sinodalità, che il Papa esorta a porre in essere ad ogni livello ecclesiale (locale, particolare, regionale, universale), altro non sarebbe che uno strumento per raccogliere in modo strutturato i desiderata dei fedeli e, in prospettiva di prima evangelizzazione o di nuova evangelizzazione, dei lontani.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
©RIPRODUZIONE RISERVATA