Leonardo da Vinci, bozzetto per l’ultima cena, castello di Windsor
Nello scorso articolo abbiamo riflettuto su alcuni aspetti della Bolla di indizione del prossimo Giubileo ordinario del MMXXV, dando uno sguardo anche alle precedenti Bolle di indizione, nel tentativo di tracciare un filo rosso che potesse connettere i giubilei della storia della Chiesa (QUI). Nel presente articolo si cercherà di tracciare un quadro il più esaustivo possibile attorno ad un istituto specifico di pertinenza, o per meglio dire caratterizzante in senso stretto, la celebrazione giubilare: l’indulgenza. In particolare cercheremo di tracciarne un profilo giuridico.
Premesse
La remissione di pena temporale si inserisce esplicitamente nel contenuto e nelle aspirazioni dell’invito al ritorno al Padre; il tesoro di grazie che la Chiesa dispensa ai suoi fedeli evidentemente è legato sempre alla fedele amministrazione e generosa profusione del patrimonio salvifico, tuttavia il carattere benefico e grazioso del dono o, piuttosto, dell’estinzione del debito di pena non esclude dunque il rilievo autoritativo della facoltà e previsione della concessione [1]. Al di là del fondamento e della prerogativa della concessione, la consistenza della realtà e, soprattutto, della relazione indulgenziante sembrerebbe sfuggire alla logica intersoggettiva e obbligatoria tipica del Diritto. L’operatività dell’indulgenza non pare riguardare in pratica la sfera del debito in foro esterno ma quella spirituale e morale, infatti l’auspicabile convergenza e accostamento tra devozione del fedele e giustizia non dovrebbe portare a un’indebita sovrapposizione o confusione di piani e prospettive, per questa ragione è interessante esplorare la motivazione e la ratio sistematica delle attuali scelte legislative e i possibili sviluppi de iure condendo [2].
D’altra parte rilevanza storica e valenza istituzionale delle indulgenze non bastano a giustificarne l’inserimento nella normativa codiciale, tra l’altro quasi in appendice alla disciplina sacramentale, infatti l’abituale manualistica colloca la dottrina indulgenziale quasi a completamento – o per meglio dire complemento – della disciplina sacramentale penitenziale, anche se pare allo scrivente più corretta l’idea di inserire la pratica indulgenziale in quegli atti di culti diversi dai sacramenti [3].
Il senso della riflessione non è, naturalmente, quello di inficiare o minare il ricorso alle indulgenze, al contrario, di promuovere e incrementare l’esperienza e l’esercizio del perdono ecclesiale, evitando appunto malintese interpretazioni o restrizioni giuridiciste. Solo l’adeguata collocazione del fattore giuridico aiuta a cogliere la ricchezza e bontà della dimensione di giustizia nella vita di fede.
Origini dell’istituto giuridico dell’indulgenza
La concessione indulgenziale, come ampiamente spiegato nell’articolo prima richiamato, (QUI), appartiene allo sviluppo organico dell’economia salvifica alla progressiva acquisizione della ricchezza e virtualità del patrimonio di grazia, ove l’approfondimento della dottrina teologica sugli effetti del peccato va a trovarsi coniugato con la positiva ricerca di purificazione e riscatto per sé e per i defunti e l’assicurazione della liberazione dalla pena temporale. La storia manifesta che le indulgenze non sono tanto una spinta o un incentivo dell’autorità quanto una sentita esigenza di conversione e di fattiva riabilitazione del popolo cristiano. Non è casuale che la scoperta del rimedio remissivo si inserisca nella progressiva enucleazione e affinamento del cammino penitenziale. La fruizione delle indulgentiae appare in questa linea come un corollario o un’esplicitazione dell’approfondimento del contenuto e dell’estensione della misericordia divina [4].
Il sistema della remissione delle pene temporali, trova la sua origine dalla vita di fede e dalla pietà popolare più che dalla decisione dell’autorità e dalla ufficialità del riconoscimento. Il regime delle indulgenze comunque prende piede e si sviluppa proprio nell’ottica legalistica e gerarchica del sistema e della mentalità medievale [5], dottrina perentoriamente riaffermata da Trento, che pur tuttavia ne ha corretto gli abusi, consolidandola, mentre nella modernità l’istituto conosce perciò un affinamento e un’attenta regolamentazione fino al riordino attuato dal beato Paolo VI con la Costituitone Indulgentiarum doctrina del 1 gennaio 1967 [6]. Dunque l’istituto nasce fattivamente da una progressiva acquisizione di consapevolezza dell’esigenza di conversione del popolo di Dio, ma ovviamente – seppure non è materia di discussione in questa sede – non si può dimenticare il dato teologico, oltre che cronistorico.
L’indulgenza nell’attuale Codice di Diritto canonico
Il primo dato sicuramente rilevante è che il Concilio Ecumenico Vaticano II non si è occupato in maniera esplicita delle indulgenze. La Costituzione Sacrosanctum Concilium, che pure esplora nel profondo la realtà cultuale non fa mai menzione delle elargizioni indulgenziali. Tuttavia, taluni Padri conciliari manifestarono il desiderio di una revisione accurata della materia dottrinale e canonistica riguardante il tema dell’indulgenza [7] al fine di evitare persistenti e pertinaci equivoci. L’argomento però, fu demandato al giudizio della Sede Apostolica, la quale da parte della Penitenzieria Apostolica fece svolgere un’indagine nelle varie Conferenze Episcopali, indagine che convogliò nel documento redatto da Paolo VI – Indulgentiarum Doctrina – il 1 gennaio del 1967, avente come tema specifico proprio quello delle elargizioni indulgenziali.
Il Romano Pontefice, a proposito, consolida e ravviva appunto l’insegnamento tradizionale della Chiesa e stabilisce i nuovi criteri del regime indulgenziale alla luce delle acquisizioni liturgiche, sacramentali ed ecclesiologiche maturate nell’assise ecumenica. La Costituzione apostolica, specificamente, si articola in 12 punti di carattere speculativo e magisteriale che ribadiscono e attualizzano il valore delle indulgenze e in 20 norme direttive che guidano la revisione dell’Enchiridion indulgentiarum. Tuttavia, al n. 11 della Costituzione, il Pontefice stabilisce che le disposizioni del Codice di Diritto canonico e dei Decreti della Santa Sede riguardanti le indulgenze, in quanto sono conformi alle nuove norme, restano invariate, dunque di fatto non apporta alcun cambiamento alla normativa vigente in materia. Alla norma quadro di riferimento fa seguito la promulgazione del nuovo Enchiridion indulgentiarum del 29 giugno 1968 [8].
Se, invece, guardiamo alla normativa codiciale, non estranea a perplessità e dubbi circa la dottrina in vigore – o per meglio dire la dottrina canonistica – immediatamente notiamo un mutamento rispetto al previgente codice. L’accennato mutamento non è solo quantitativo, ma soprattutto stilistico e qualitativo nel tenore delle prescrizioni. Infatti, nel Codex piano-benedettino il titolo De indulgentiis fissava e compendiava la disciplina generale dell’istituto, nella revisione giovanneo-paolina invece, al di là della revisione normativa già intervenuta, riepiloga ed estrapola solo i tratti salienti della figura. Assodato questo primo dato di carattere generale, comunque, uno sguardo più approfondito all’iter redazionale ci fa intendere come vi sia stato un passaggio abbastanza brusco tra le prime versioni del Codice del 1980 e quelle che poi sono divenute la versione definitiva. L’intenzione originaria di semplificazione aveva portato solo a contenere la regolamentazione in un più modesto numero di canoni; la linea di lavoro inizialmente seguita era semplicemente la trasposizione e adeguazione delle normae della Costituzione Indulgentiarum doctrina, mentre nella sessione del marzo del 1972 si approntò uno schema iniziale di 24 canoni, ovvero dal can. 155 al can. 179 [9].
Tale schema iniziale, rivisto, snellito, semplificato e accorpato portò alla redazione di un secondo schema definitivo di 18 canoni – dal 162 al 180 – schema che fu inserito nel De Sacraementis, successivamente approvato [10]. Tuttavia, nonostante l’approvazione, lo schema secondo fu ulteriormente rivisto e modificato, fu snellito e – aggiunto il can. 997 – vide l’approvazione definitiva di un terzo ultimo schema, di sei canoni. Interessante l’iter, che sicuramente ci fa comprendere un volontario e decisivo cambio di rotta rispetto alla precedente normativa, ma ancor più d’interesse è certo la ratio legata alla natura ed alla struttura della norma. Nella prima disceptatio, infatti si affrontano tre tematiche – collocazione, ampiezza e testo di base del disposto – che portano alla sincera perplessità di inserire l’indulgenza in coda al Sacramento della riconciliazione [11], unitamente al dubbio circa una trattazione sintetica da preferirsi ad una più estesa, avendo come base non già il Codex del 1917, ma piuttosto l’Enchiridion indulgentiarum.
Osservando l’attuale normativa, sicuramente possiamo concludere che non si ritenne poi oggettivamente necessario un radicale riassetto della normativa, ma piuttosto uno sfrondamento e una semplificazione della stessa, rispetto alla precedente. L’attuale formalizzazione ha quindi un carattere molto essenziale e lineare, conserva tuttavia l’idealità di fornire un sommario riferimento dottrinale più che limitarsi al profilo giuridico dell’istituto. La normativa di conseguenza assume un valore prevalentemente teologico e didascalico. Il disposto dei cann. 992-997 presenta: la definizione d’indulgenza, i tipi d’indulgenza (parziale o plenaria), la destinazione del beneficio (per sé o per i defunti), l’autorità competente a elargirla, la capacità e il modo per lucrare l’indulgenza, il rinvio alla specifica legislazione. La logica delle previsioni pare dettata insomma dalla continuità storica e dalla completezza del sistema. La sistemazione ricalca poi quella tradizionale e il necessario collegamento con l’economia penitenziale. La disciplina conserva quindi il ruolo di una sorta di appendice della Riconciliazione [12].
Questioni circa la fruizione
Ci si può chiedere quale natura abbia l’istituto dell’elargizione indulgenziale. La risposta è, senza ombra di dubbio, da ricercarsi nel potere potestativo – se vogliamo meglio specificare, nelle chiavi date a Pietro – da cui deriva che le relative prescrizioni abbiano un carattere assolutamente normativo. La previsione disciplinare del Codice, tuttavia, può far sorgere l’equivoco che la cancellazione della pena e la reintegrazione del peccatore operoso sia un fatto essenzialmente giuridico o che comunque segua una logica rivendicativa. A questo punto, può giungere in aiuto la teoria dell’ipsa rse iusta del Dottore Angelico, per la quale conviene invece esplorare la giuridicità nella realtà delle indulgenze prima che nella norma positiva. In tale ottica, la previsione di giustizia dell’indulgenza è da considerarsi originaria, o radicale, in strettissima connessione con l’istituzionalità e la mediazione salvifica della Chiesa stessa, pur senza stabilire una vera relazione di debito.
Ovvero, il beneficio dell’indulgenza non è né esterno, né intersoggettivo, né doveroso. Lo stesso can. 992 C.J.C. che definisce l’indulgenza come la remissio coram Deo poenae temporalis pro peccatis ope Ecclesiae, va ad escludere categoricamente ogni vincolo di obbligatorietà interpersonale; d’altro canto la richiesta per il lucro dell’indulgenza – un cuore contrito e orientato a Dio – è quanto di più personale ci possa essere. Per questo, l’indulgenza è solo una straordinaria fruizione del tesoro dei meriti di Cristo e dei Santi da parte del fedele riconciliato. L’intervento della Chiesa non configura una specifica prestazione di servizio (a prescindere dall’eventuale rilievo sociale connesso all’opera indulgenziata [13].
La natura e la ratio dell’indulgenza appena delineata si coglie meglio evidenziando lo stacco rispetto all’economia sacramentale. La dottrina sottolinea spesso l’approssimazione o il collegamento dell’istituto con la disciplina dei Sacramenti. andrebbe però sottolineata maggiormente la specificità e peculiarità del fenomeno indulgenziale. Per quanto l’organismo sacramentale superi enormemente la prospettiva giuridica, si conforma comunque alla logica dell’esigenza intersoggettiva. La giuridicità dei sacramenti è molto limitativa e parziale, infatti coglie solo un aspetto di un fenomeno misterico e soprannaturale, eppure descrive una dimensione importante dei relativi beni salvifici. I sacramenti sono diritti, ovvero beni dovuti, perché c’è una spettanza intrinseca alla lex gratiae derivante dalla mediazione del fattore umano. Al diritto di ricevere corrisponde appunto un dovere di amministrare secondo il dinamismo proprio dello ius [14].
La giuridicità dell’indulgenza è più articolata e complessa. Stante il fatto che si rimane comunque nell’ordine trascendente, non si tratta di un fenomeno congenito o costitutivo nella struttura della lex gratiae ma di un fattore acquisito o derivato attraverso l’autorità della Chiesa. Il divario non proviene, dunque,dal contrasto tra l’istituzione divina o l’istituzione ecclesiastica del bene, quanto dalla relazione di giustizia dedotta. L’indulgenza risponde alla giustizia legale e non ad una forma di giustizia lato sensu distributiva del patrimonio salvifico. Il profilo giuridico allora non recepisce un criterio di ripartizione fissato ex institutione divina, ma regola autonomamente l’attribuzione del beneficio e i presupposti del meccanismo remissivo.
L’indulgenza si inserisce in una fattispecie a formazione progressiva che tra l’altro sovente implica l’economia sacramentale. Penitenza e Comunione evidentemente integrano le condizioni dell’indulgenza, almeno di quella plenaria, ma si tratta solo di componenti o elementi di un insieme composito, non vanno a costituire il motivo del riconoscimento del surplus del condono o il fulcro attorno a cui ruota l’atto di clemenza [15]. Se il fondamento dell’indulgenza risiede nella sovrabbondanza della Redenzione, il titolo sta nell’amministrazione ecclesiale del tesoro di grazie. La pretesa del perdono divino è legata allora a una misura autoritativa umana ed il diritto risiede nella facoltà di concessione e di regolazione e non certo nella logica e nella dinamica della condotta “indulgenziata”.
La giuridicità dunque riguarda solo la determinazione dei presupposti e la disciplina della fruizione dell’indulgenza, non concerne l’atteggiarsi e il contorno dell’attività “indulgenziata”, in quanto tale non interpersonale. La facoltà di normare o regolamentare appare però come una costante del governo ecclesiastico [16].
Note
[1] cfr. J. HERVADA, Le radici sacramentali del diritto canonico, in Ius Ecclesiae, 17 (2005), 635-636.
[2] cfr. M. DEL POZZO, La giustizia nel culto. Profili giuridici della liturgia della Chiesa, Roma 2013, 25-27.
[3] Rifacendoci alla teoria di B.F. PIGHIN, Diritto sacramentale, Venezia 2006, 359-367.
[4] cfr. M. DEL POZZO, Giuridicità delle indulgenze, in Ius Canonicum, LVII (2017), 824.
[5] cfr. N. PAULUS, Geschichte des Ablasses im Mittelalter, I-III, Paderborn 1922-1923, rist. WBG, Darmstadt 2000.
[6] in AAS, LIX (1967), 5-24.
[7] cfr- A. CALVO ESPIGA, Algunas orientaciones actuales de la teología de las indulgencias, in Burgense, 21 (1980), 417-449.
[8] cfr. PAENITENTIARIA APOSTOLICA, Enchiridion indulgentiarum. Normae et concessiones, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1968.
[9] cfr. Communicationes, 31 (1999), 321-332.
[10] cfr. Communicationes, 32 (2000), 120.
[11] cfr. Communicationes, 31 (1999), 321.
[12] cfr. J. HERVADA, Le radici, 831-832.
[13] cfr. Ivi, 833.
[14] cfr. A. URRU, La funzione di santificare della Chiesa [I Sacramenti], Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino in Roma, Roma 1987, 221.
[15] cfr. J. HERVADA, Le radici, 835-836.
[16] cfr. C. J. ERRÁZURIZ M., Il diritto e la giustizia nella Chiesa. Per una teoria fondamentale del diritto canonico, Milano 2000, 213-223.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
©RIPRODUZIONE RISERVATA