Carl Wuttke, veduta di Roma con Castel Sant’Angelo e il Vaticano, 1890
Alcuni giorni fa ho avuto il piacere di essere nella commissione dinanzi alla quale si è discussa, presso la Pontificia Università della Santa Croce, la tesi dottorale di don Javier de Juan, che ha affrontato il tema dell’esclusione del bonum coniugum nella giurisprudenza rotale pubblicata dal 1983 fino alla data odierna. Un lavoro enorme, con un appendice che costituisce una rassegna di giurisprudenza rotale su questo capo di nullità che potrà essere di grande aiuto a studiosi e operatori del diritto. Oltre a questioni di diritto sostanziale, il lavoro affrontava anche tematiche processuali legate alla prova di quest’esclusione – estensibili anche alle altre forme di esclusione e alla simulazione in generale – , il che mi ha fatto riflettere su alcune questioni legate alla confessione nelle cause matrimoniali.
La confessione nelle cause di nullità matrimoniale
La prima domanda che mi ponevo, è fino a che punto ha senso parlare di confessione nelle cause di nullità matrimoniale. La confessione, tradizionalmente, è una dichiarazione della parte sulla materia del giudizio che si scontra con la tesi processuale sostenuta dal dichiarante (cfr. can. 1535 CIC). La dottrina classica aveva persino richiesto che tale dichiarazione fosse anche favorevole all’avversario. E qui, naturalmente, sta il cuore epistemico della confessione: in generale, nessuno manifesta liberamente qualcosa che può nuocere alla sua posizione, per cui se lo fa liberamente, è da presumersi che sia qualcosa vera o con molta probabilità di essere vera. Potremmo dire che la svista del dichiarante viene molto apprezzata dall’ordinamento. Lasciando da parte il fatto che la confessione benefici o meno l’avversario – punto che non ha raccolto la nozione legale del can. 1535 – la Dignitas Connubii, nel suo art. 179, § 2 ha però precisato che cosa si deve intendere per confessione nelle cause di nullità del matrimonio.
Da un lato, l’art. 179, § 1 DC riprende la stessa nozione del can. 1535 CIC, ma poi il § 2 si apre con un «Attamen in causis nullitatis matrimonii…» per dire che la sostanza della confessione in una causa di nullità matrimoniale consiste nell’affermare un fatto proprio contrario alla validità del matrimonio. Com’è ovvio, se il convenuto – che sostiene la tesi pro vinculo – dichiara che l’attore aveva escluso la prole e che così glielo aveva manifestato, questa dichiarazione del convenuto, è qualificabile come confessione? Stando alla nozione classica dovrebbe dirsi di sì, in quanto fatto che va contro la propria tesi processuale e favorisce addirittura la posizione dell’attore. Invece, stando all’art. 179, § 1 DC, quello che potrebbe qualificarsi come confessione extragiudiziale sarebbe appunto la manifestazione dell’attore al convenuto, che entra al processo attraverso la dichiarazione del convenuto. Si pensi al caso in cui il convenuto, che sostiene la tesi pro vincolo, afferma che lui sapeva che il sacerdote celebrante non aveva alcun tipo di delega e che non era il parroco della zona, sebbene ignorasse le conseguenze di questa situazione.
Il fatto è avverso alla tesi del convenuto ed è avverso anche alla validità del vincolo, ma allo stesso tempo, è un fatto proprio del convenuto? Se poi si guarda al can. 1536, § 1 CIC, riguardante le cause di bene pubblico nel palcoscenico del contenzioso ordinario, la confessione giudiziale e le altre dichiarazioni delle parti vengono trattate insieme, ossia, sono inidonee a generare la piena probatio se non si aggiungano altri elementi ad avvalorarle in modo definitivo (al di sotto della piena probatio, una quaedam vis probandi avranno valutando tutto l’insieme delle circostanze della causa). Il can. 1678, § 1 CIC poi – nel processo ordinario di nullità matrimoniale – tratta processualmente insieme la confessione giudiziale e le altre dichiarazioni delle parti: potranno avere valore di prova piena da valutarsi insieme agli indizi e agli ammennicoli e in assenza di altri elementi che le confutino.
Stando così le cose, e dato che il trattamento processuale non fa distinzioni, non sarebbe più congruo concettualmente prescindere dal concetto di confessione specifico dell’art. 179, § 2 DC, e riportare la confessione alla sua nozione legale? Perché il fatto che l’attore dica che voleva escludere la prole non è affatto sorprendente, dato che lui sostiene la tesi della nullità; sarebbe molto più interessante che la convenuta, opposta fieramente alla tesi attoria, dicesse al giudice che le risultava che l’attore non voleva assolutamente avere figli.
Il tempo suspectum
La seconda domanda riguarda la questione del tempo sospetto e non sospetto. Per definizione, una dichiarazione della parte (o una confessione) in senso stretto, cioè, intra processum e durante il corso dell’esame giudiziale è per sua natura in tempo sospetto. Lo stesso dicasi se il concetto si espande un po’ a quelle manifestazioni intra processum ma aldilà dell’interrogatorio: il tempo è comunque suspectum. Dal punto di vista epistemico, il tempo più interessante è il tempo non sospetto, e quindi perlomeno previo al processo eppure addirittura prima del fallimento del matrimonio. Sennonché quelle dichiarazioni o confessioni saranno sempre extra giudiziali. Quando a volte si afferma che la prova diretta della simulazione è la confessione giudiziale, sembrerebbe che lì si nasconda qualche eventuale malinteso: nel corso del processo, che l’attore affermi un fatto proprio contrario al vincolo ha, ab initio, un valore probatorio non troppo pressante.
La confessione veramente affidabile epistemicamente – pur assumendo la nozione dell’art. 179, § 2 DC – sarebbe quella extra giudiziale. Così lo afferma una coram Funghini del 1992, esponendo in merito allo schema di prova la necessità di una «(…) confessio simulantis, iudicialis et praesertim extraiudicialis, testibus fide dignis tempore insuspecto facta» (coram Funghini, sent. 14-10-1992, RRDec., vol. LXXXIV, p. 469, n. 13). Oppure ancora Mons. Yaacoub: «Probationis fundamentum confessio est simulantis, testibus fide dignis concredita, melius si extraiudicialis et tempore non suspecto» (coram Yaacoub, sent. 28-10-2009, RRDec., CI, p. 288, n. 16).
Tuttavia, in giurisprudenza non sempre si sottolinea quest’aspetto. Si veda la diversità di approccio in una coram López-Illana del 15-1-2000: «Simulatio directe probatur et indirecte: directe per confessionem asserti simulantis in iudicio confirmatam a testibus fide dignis atque temporis non suspecti (…)». E poi ancora nello stesso numero: «Ad confessionem, autem, similantis quaod spectat, dicendum est quod huismodi confessio, si tantummodo in foro data contra validitatem matrimonii non probat, et, generatim loquendo, exigui momenti habetur, quia causa bonum pubblicum respicit, nisia alia accedant elementa, quae eam omnino corroborent» (RRDec., vol. XCII, pp. 36-27, n. 14).
Come possiamo notare, implicitamente si punta lo sguardo ai testi temporis non suspecti che possano corroborare, con quella sua fonte di conoscenza in tempo non sospetto, quanto dice il dichiarante in tempo sospetto: il fulcro non si trova nella confessione giudiziale a sé, ma proprio nella sua corroborazione in tempo non sospetto. Sembra dunque molto più confacente chiedere non testi in tempo sospetto, ma sopratutto una confessione extragiudiziale in tempo non sospetto. E poi, la forza esigua della confessione giudiziale non si spiega solo perché positivamente il can. 1536, § 2 CIC obbliga a contemperarla con altri elementi, ma perché epistemicamente è a sé poco affidabile. In verità, la confessione più affidabile epistemicamente sarebbe quella extragiudiziale.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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