Come precedentemente trattato QUI, è del 2016 la modifica apportata dal Supremo Legislatore al can. 579 C.J.C., ovvero la mutazione della norma che prevedeva dummodo Sedes Apostolica consulta fuerit, in caso di erezione di un nuovo Istituto di vita consacrata in seno ad una Diocesi, con l’introduzione di una norma che – di fatto – ha natura di interpretazione autentica, per cui qualora mancasse il placet della Santa Sede, ovvero la sua consultazione, l’atto di erezione sarebbe nullo.
Nella precedente analisi avevamo trattato la tematica concernente il rescritto limitatamente al rapporto fra potestà dei Vescovi Diocesani e Suprema autorità della Chiesa, concludendo pacificamente che la norma andava a garantire, in maniera molto poco trascendentale, ma pure assolutamente necessaria, l’evitarsi di errori di valutazione che possono commettersi da parte di uffici locali spesso impreparati.
In questa sede, riprendiamo la tematica per analizzarne una ulteriore sfaccettatura, ovvero l’essere della vita consacrata un soggetto ecclesiale in relazione, tra la Chiesa particolare e la Chiesa Universale.
Rapporti fra Diocesi e Vita consacrata
Il primo elemento che necessita di essere messo in luce è proprio il rapporto che sussiste fra Diocesi e Vita consacrata, di qualunque carisma si possa trattare. Senza ombra di dubbio, proprio la Vita consacrata è un elemento prezioso non già solamente per la Chiesa universale, ma anche – e soprattutto – per quelle circoscrizioni particolari che riconosciamo essere, in primis, le Diocesi. Certamente, proprio il territorio si trova ad essere, comunque, lo spazio di condivisione di varie e variegate forme ecclesiali, talora chiamate a convivere tra loro [1], un elemento – il territorio – che il Diritto canonico tiene in massima considerazione essendo l’unico che garantisce ai fedeli una totale e certa referenzialità, pur non essendo l’unico, per una concreta cura pastorale. In ragione di ciò il Diritto canonico stabilisce come principio che il garante ultimo e il responsabile di quanto in una circoscrizione accada sia il Vescovo o chi ad esso è dal Diritto equiparato.
In questo ambito non si può tralasciare l’indiscussa pastoralità degli Istituti di Vita consacrata e dunque, la conseguente necessità che tale dono carismatico sia in qualche modo regolato. Se è vero che il can. 681 C.J.C. stabilisce la necessità di una convenzione scritta per l’affidamento ad Istituti di opere specifiche all’interno della Diocesi, altrettanto vero è che pure prevede una – più limitata – reciproca intesa per altre circostanze, intesa oltre che caldeggiata, razionalmente prevedibile in forma scritta, non fosse che per analogia. A proposito di queste ultime, possono essere statisticamente rilevabili come più numerose rispetto alle prime, nonostante l’esiguità con cui il Legislatore – nel can. 681 C.J.C. – ad esse si riferisca. Ne stabilisce, infatti alcune imprescindibili peculiarità, che possiamo riconoscere anzitutto nell’identificazione precisa delle attività da svolgere, del quantum relativo ai consacrati da dedicare a quella (o quelle) determinata specifica attività, gli aspetti economici. Certo, sono solamente tre indicazioni specifiche nell’alveo dell’inter alia che ne può comprendere certamente ben più numerose.
Il contesto del can. 579 nel Codice di Diritto canonico
Compreso quanto prima detto, ovvero la concreta sussistenza di rapporti dovuti e doverosi tra Ordinario e Istituto di Vita consacrata, bisogna inquadrare il contesto del canone preso in esame, all’interno del Corpo codiciale. Il can. 579 C.J.C. stabilisce l’intervento per l’erezione di un nuovo Istituto di Vita consacrata tra una necessaria premessa ed un’onesta constatazione. La premessa concerne la natura ecclesiale della Vita consacrata, laddove la constatazione rimanda alla necessità di evitare l’erezione di nuovi Istituti senza un sufficiente discernimento.
Ebbene, tale indagine sulle competenze e le modalità in seno al processo di erezione di un nuovo Istituto, può essere inaugurata solo a partire dall’assunto fondamentale sulla natura ecclesiale di questa particolare forma di vita cristiana. La Vita consacrata appartiene alla Chiesa; come afferma il Concilio Ecumenico Vaticano II, che coniò l’espressione di pertinet inconcusse ad vitam et sanctitatem Ecclesiae [2]. A tale premessa si accompagna una onesta contestazione: la procedura portata avanti a livello diocesano spesso viene condotta con ordine e chiarezza normativa insufficiente; sovente il discernimento non sempre è attento a tutte le necessarie condizioni per la sussistenza di un nuovo Istituto di Vita consacrata e spesso diventa foriero di confusione. Dunque, è il bene della Chiesa la ratio legis del can. 579 C.J.C. e l’unica giustificazione della sua nuova redazione secondo il dettato del rescritto del 2016.
Il canone, laconicamente, esprime tutte le condizioni che il Diritto detta per l’erezione. In primo luogo ci soffermeremmo sull’espressione erigere possunt. Quella dell’erezione per il Vescovo non è un dovere-diritto, quanto piuttosto una possibilità, ovvero una facultas. In caso contrario il Legislatore non lesinerebbe dall’utilizzo del ben più perentorio debet. Ebbene, tale possibilità è indubbiamente subordinata ad una attenta valutazione e zelante discernimento dell’opportunità che questa – ossia l’erezione – possa essere la risposta alla petitio. La necessità del discernimento ci indica che proprio per l’essere della Vita consacrata dono alla Chiesa del Suo Divino Fondatore, non può essere né da lei prodotta, né alla sua vita imposta, ma solo accolta, nella misura in cui la Chiesa la riconosce e la riceve come consegnata a sé da Cristo stesso. Ora, tuttavia, il Legislatore tace sui mezzi per il corretto discernimento, ma puntualizza – invece – quali siano i limiti di quella che abbiamo chiamato facultas del Vescovo, rispetto all’erezione. Tre limiti, più un quarto introdotto dalla modifica.
Primo, un limite personale laddove la facoltà è riservata solo al Vescovo diocesano o equiparati. Secondo, un limite territoriale, ossia l’erezione è possibile solo nei limiti della circoscrizione ecclesiastica soggetta alla propria potestà; terzo, un limite formale se consideriamo che l’erezione è possibile solo ed esclusivamente tramite decreto. Quarto, un limite costitutivo, ovvero l’erezione è possibile – e valida – solo dopo la consultazione della Sede Apostolica. La consultazione dunque, diviene elemento ad validitatem.
Quanto agli elementi sostanziali, al contrario di quanto accade per l’erezione di una casa religiosa, il Codice non declina granché. Tuttavia proprio alla luce della ratio che guida i criteri sostanziali per l’erezione di una casa religiosa, possiamo pacificamente dedurre che anche per l’erezione di cui al can. 579 C.J.C. non si potrà ipotizzare una sola definizione formale sarà piuttosto necessario dedurre dai suddetti limiti formali delle indicazioni sostanziali, secondo cui compiere il necessario percorso di valutazione, sulla possibilità di erigere un nuovo Istituto di vita consacrata. Il fatto che il Legislatore abbia specificato la titolarità in capo al Vescovo diocesano, riconduce il can. 579 C.J.C. nell’alveo del can. 375 C.J.C., ovvero affidando la facultas a colui che nel territorio della Diocesi è sacerdote dei divini misteri, maestro della dottrina e ministro del governo chiamato ad esercitare la sua sollecitudine pastorale con dedizione a quella porzione di popolo di Dio a lui affidata.
Il riferimento alla Diocesi vuol dire quindi che la novità va accolta nella realtà di una vita ecclesiale. L’Istituto da erigere non è un progetto teorico che chiede di poter essere concretizzato, ma piuttosto una concretezza che chiede di esser riconosciuta. Ogni forma di Istituto – che poi è espressione di un carisma – al di là di ogni ulteriore specificazione, ovvero che si tratti di diritto pontificio o diocesano, contemplativo o di apostolato attivo, clericale o laicale, è anzitutto un soggetto ecclesiale incorporato ad una Chiesa particolare, nella sua vita chiamato al servizio e alla testimonianza, all’autorità episcopale soggetto; per questo il riferimento è alla Chiesa particolare e al suo Pastore.
L’intervento della Santa Sede
Il can. 579 C.J.C., comunque, prevede – ad validitatem dopo l’intervento del Legislatore Supremo del 2016 – che intervenga, nel processo di erezione la Sede Apostolica. Il primo elemento che sicuramente denotiamo come significativo circa il perché di tale intervento è quello della ragione di appartenenza; se è vero che ogni Istituto si innesta nella vita di una comunità determinata, in una determinata e specifica circoscrizione territoriale sotto la guida del Pastore suo proprio, è altrettanto e prima di tutto vero che ogni Istituto è radicato nella Chiesa Universale, Corpo mistico del Divino Fondatore da cui – in dono – ogni carisma proviene.
Qualunque forma di Istituto di Vita consacrata – anche in questo caso, non ha rilevanza se pontificio o diocesano, clericale o laicale, apostolico o contemplativo, esente o non – è della Chiesa universale al di là del suo patrimonio, declinato tra indole, natura, struttura ed apostolato, è per l’edificazione della Chiesa, al suo servizio, per il suo bene. È questo principio fondamentale, questa determinante asserzione che ha guidato il Supremo Legislatore a quell’atto di modifica – e prima ancora di interpretazione autentica – della norma codiciale. Il richiamo alla Santa Sede denota un atteggiamento prudente della Chiesa e l’intervento richiesto è tutt’altro che un passaggio formale.
Sembra, invece che tale passaggio, appartenga a quel giudizio di promozione e di regolamentazione, che già la costituzione Pastor Bonus, aveva richiesto all’allora Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e Società di vita apostolica, al fine di esprimere un giudizio di opportunità, a sostegno di un’azione giuridica attribuita al Vescovo diocesano [3]. E dunque, il can. 579 C.J.C., de facto, sottolinea e chiarisce l’essere in relazione del soggetto ecclesiale Istituto di Vita consacrata, la sua duplice appartenenza – in chiave diremmo di radicamento e innesto – tanto alla Chiesa universale quanto ad una determinata Chiesa locale.
La naturale appartenenza all’una, implica una reale incorporazione all’altra e questa reciproca implicazione riecheggia la mutua interiorità della natura ecclesiale, per cui «in ogni Chiesa particolare “è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica”» [4]. Tale fenomeno tensivo, tale tensione, il Legislatore non la riconosce tanto come un fenomeno contingente o forse anche accidentale, ma piuttosto quale fenomeno costitutivo vero e proprio e – oseremmo – quasi elevandolo a rango di criterio valutativo, tanto da erigere quell’Istituto (nascente) che ben risponde al fenomeno tensivo tra spinta universale e fedeltà alla realtà locale.
La tensione che prima abbiamo detto è molto bene espressa dalla prima conseguenza giuridica del decreto di erezione: all’atto originario dell’erezione, l’Istituto è sive ipso iure sive speciali competentis auctoritatis decreto eandem expresse concedenti [5] persona giuridica pubblica nell’Ordinamento canonico e questa nuova identità fa dell’Istituto un soggetto ecclesiale tout court, agente entro i fini prestabiliti, a nome della Chiesa, a norma delle disposizioni del Diritto, in vista del bene pubblico [6]. Un ulteriore elemento che non riteniamo debba trascurarsi è che l’erezione richiede un’approvazione del proprio Diritto, il quale, nel suo esser approvato, viene sottratto alla gestione autonoma dell’Istituto, entrando invece a pieno titolo tra quegli strumenti atti a rivelare il Depositum Fidei, che la Chiesa è chiamata a custodire santamente, scrutare intimamente, annunziare ed esporre fedelmente.
La partecipazione, ad validitatem, della Santa Sede a questo momento costitutivo ha quindi il grande merito di sottrarre la gestione di questo soggetto ecclesiale a dinamismi esclusivi e settari, garantendo invece l’ampio respiro della cattolicità, nonché una reale garanzia di competenza.
L’interpretazione contestuale del can. 579 C.J.C., inoltre, non ci sottrae dal distinguere tra un momento materiale ed un formale, nell’unico atto di erezione. Eventi distinti e susseguenti, eppure reciprocamente implicanti, che continuamente si richiamano e si postulano. Infatti, potrà esserci erezione solo se già c’è stata una fondazione, e sarà proprio la fondazione a determinare i presupposti e i criteri, i limiti e le condizioni dell’erezione canonica. Da qui l’importanza del patrimonio definito dal can. 578 C.J.C. e costantemente richiamato nella normativa sulla vita religiosa, dalla formazione alla gestione dei beni, dall’apostolato alle modalità di esercizio della autorità, dal modo di assunzione dei consigli evangelici alla forma proprio di vita fraterna, ed anche, per la definizione dell’erezione.
In conclusione
Per le varie modalità per cui abbiamo letto il can. 579 C.J.C., la nuova formulazione, secondo il rescritto del Romano Pontefice, ci appare assolutamente pertinente e necessaria. Il rescritto, con la sua particolare valenza di atto dato dalla competente autorità, ha sicuramente confermato, con la forza di un intervento pontificio alcune dimensioni fondamentali di questo stato di vita cristiano; tra le quali, certamente, la peculiare appartenenza alla Chiesa, da cui il rinnovare la responsabilità delle autorità ecclesiali – il Vescovo e la Santa Sede – sulle vicende più dettagliate degli Istituti di Vita consacrata. Tuttavia rimangono alcune questioni aperte.
La prima era evidenziata già nella precedente riflessione, inizialmente citata. L’atto di erezione rimane originario del Vescovo diocesano; ovvero il can. 579 C.J.C. prescrive l’intervento della Santa Sede per l’erezione di un nuovo Istituto come necessario, e il rescritto del maggio 2016 lo conferma ad validitatem, eppure inalterata rimane la natura del procedimento, pur ampliandosi il numero degli agenti coinvolti e la loro responsabilità. La nuova formulazione richiede un’espressione concorrente di più volontà, che si richiamano l’una con l’altra, allo scopo di perseguire una finalità unitaria.
L’atto ultimato è quindi un atto complesso, ipotizzato al fine di garantire un migliore processo di discernimento, per preservare il bene pubblico della Chiesa; ciò suggerisce che l’articolazione corale degli interventi di Vescovo e Santa Sede è espressione del necessario dialogo ecclesiale – che con la voce del Romano Pontefice Francesco potremmo definire sinodalità – necessario e costitutivo dell’articolata realtà che è il Popolo di Dio.
Un’ultima riflessione sulle conseguenze della consulta. Pur avendo interpretato autenticamente il dummodo in senso invalidante – secondo il dettato del can. 39 C.J.C. – si potrebbe verificare la disattesa del parere negativo della Santa Sede, nell’azione del Vescovo. Seppure questa ipotesi nella teoria potrebbe verificarsi, comunque di fatto, una azione di tal genere sarebbe profondamente lesiva del senso di composita comunione che la ratio del rescritto ha voluto invece preservare. E dunque quanto nella teoria sembrerebbe canonicamente valido, in vero si definirebbe come un atto di mancata comunione del Vescovo con la Sede Apostolica, un vero e proprio distacco di comunione motivato da un dissenso con la gerarchia, uno scisma.
Finalmente, dunque, si può affermare che l’interpretazione autentica del Romano Pontefice circa il can. 579 C.J.C. e la sua conseguente modifica, è fattiva espressione di quella ecclesiologia conciliare della communio ecclesiarum, che comporta la piena legittimazione di ogni tradizione e di ogni rito, dove ciascuno, poiché parte di un’unica Chiesa, prende parte all’unico corpo di Cristo che è la Chiesa, la cui cattolicità ecclesiale non è più colta come omologazione uniformante, bensì un’unità multiforme eppure organica, nella forma di una comunione particolare, quella armonia nella diversità, tanto ricorrente del magistero pontificio attuale [7].
Note
[1] Per approfondire questa tematica si può vedere: P. Gherri, Diritto amministrativo canonico: elementi e considerazioni tra Diocesi e Istituti di Vita consacrata, in URL: http://gherripaolo.eu/testi-Gherri/gherri-81.htm/___possible__unsafe__site__
[2] LG 44: Status ergo, qui professione consiliorum evangelicorum constitutur, licet ad Ecclesiae structuram hierarchicam non spectet, ad eius tamen vitam et sanctitatem inconcusse pertinet. Questa espressione non è un’auctoritas recuperata da fonti antiche, ma la nuova volontà dei Padri conciliari, che emendarono il testo con l’intento di confermare lo stretto vincolo della vita consacrata alla Chiesa, cfr. Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, Città del Vaticano 1971, vol. III, 312-318.
[3] cfr. Joannes Paulus PP. II, Const. Ap. Pastor Bonus, in AAS, LXXX (1988), 887.
[4] Congregatio pro Doctrina Fidei, Communionis noctio, in AAS, LXXXV (1993), 840.
[5] cfr. cann. 114-116 C.J.C.
[6] cfr. 747 C.J.C.
[7] cfr. Francesco PP., Udienza generale, 9 ottobre 2013, in L’Osservatore Romano, 10 ottobre 2013, 7; Udienza generale, 27 agosto 2014, in L’Osservatore Romano, 28 agosto 2014, 8; Omelia, 9 novembre 2017, in L’Osservatore Romano, 10 novembre2017, 4.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
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