Pietro Longhi, la confessione, 1777 circa, Galleria degli Uffizi, Firenze
Nel contesto del diritto canonico, ai ministri di culto è imposto l’obbligo del segreto riguardo a quanto appreso durante la confessione, anche se il penitente autorizza la divulgazione. Il canone 983, §1, afferma che il “sigillo sacramentale è inviolabile,” proibendo al confessore di tradire in qualsiasi modo il penitente. La violazione del segreto confessionale comporta la scomunica latae sententiae, riservata alla Santa Sede. Il sigillo sacramentale vincola anche interiormente il confessore che è tenuto a sopprimere ogni involontario ricordo, non essendogli lecito ricordare volontariamente la confessione.
La profondità e l’estensione del sigillo è resa ancor più evidente dal divieto imposto al confessore di fare parola, fuori dal sacramento, del contenuto della confessione anche con lo stesso penitente, “salvo esplicito, e tanto meglio se non richiesto, consenso da parte del penitente”. D’altra parte, l’inviolabilità del sigillo sacramentale tocca lo stesso penitente per quanto riguarda l’incapacità “di sollevare il confessore dall’obbligo della segretezza, perché questo dovere viene direttamente da Dio”.
Oltre a queste disposizioni assolutamente restrittive vogliamo ricordare anche la “incapacità” dei sacerdoti a essere testimoni, “per quanto appreso dalla confessione sacramentale, anche nel caso che il penitente ne chieda la rivelazione; anzi, tutto ciò che da chiunque e in qualsiasi modo sia stato udito in occasione della confessione, non può essere recepito neppure come indizio di verità” (can. 1550 §2, 1).
Per ciò che concerne la normativa di derivazione pattizia tra Stato e Chiesa, l’articolo 4.4 dell’Accordo del 18 febbraio 1984 (legge n. 121 del 1985) stabilisce che gli ecclesiastici non sono tenuti a fornire informazioni alle autorità civili su persone o materie apprese durante il loro ministero religioso. Questa disposizione protegge il segreto confessionale e altre informazioni riservate acquisite nel contesto delle loro funzioni religiose.
Il segreto ministeriale all’interno della normativa unilaterale dello Stato
L’art. 200, comma 1, lett. a) cod. proc. pen. dispone che «Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria: a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano».
Tale norma sancisce un vero e proprio diritto di astensione dei ministri di culto dal deporre su quanto abbiano appreso in ragione del loro ministero. Esula, pertanto, dal segreto tutelato dalla norma in esame, quanto gli stessi abbiano appreso non a motivo delle proprie funzioni (per esempio, nell’ambito di una conversazione privata). Sul piano interpretativo, tuttavia, si pone il problema della individuazione dell’esatta portata dell’oggetto della tutela in relazione alla espressione «quanto conosciuto in ragione del proprio ministero», prevista dalla norma.
La tutela del segreto ministeriale secondo la Cassazione
In proposito si è pronunciata la Corte Suprema, che in relazione al disposto dell’art. 4, n. 4 dell’Accordo del 1984 (l. n. 121 del 1985) ha escluso il reato di favoreggiamento o falsa testimonianza per gli ecclesiastici che abbiano riferito all’autorità giudiziaria notizie incomplete in relazione a fatti di cui siano venuti a conoscenza per l’esercizio del loro ministero, riconoscendo in tal caso la legittima astensione loro garantita dall’art. 200 cod. proc. pen. (Cass. pen., 3 maggio 2001, n. 27656). Con tale pronuncia i giudici hanno affermato il principio secondo cui il diritto di astensione dal testimoniare per gli ecclesiastici si estende a tutto quanto appreso a motivo della propria qualifica (e non solo a quanto appreso nel corso di una confessione), attribuendo dunque alla espressione “in ragione del loro ministero” un significato ampio.
La sentenza della Corte Suprema, sez. VI, del 14 febbraio 2017, n. 6912, ribadisce che il segreto confessionale riguarda solo le informazioni acquisite nell’ambito delle attività connesse all’esercizio del ministero religioso. Pertanto, se un ministro di culto riceve confidenze al di fuori di questo contesto, come ad esempio riguardo a gravi reati subiti come violenze sessuali su un minore di età, è tenuto a testimoniare in un processo penale e non può rifiutarsi senza incorrere nel reato di falsa testimonianza.
Diritto all’astensione della consegna di atti e documenti
Inoltre, l’articolo 256 del codice di procedura penale riconosce ai ministri di culto il diritto di astenersi dal consegnare all’autorità giudiziaria atti e documenti se dichiarano per iscritto che si tratta di segreto inerente al loro ufficio. Spetta all’autorità giudiziaria verificare la validità di tali dichiarazioni.
Limitazioni sull’utilizzo delle intercettazioni
L’articolo 271 del codice di procedura penale vieta l’utilizzo delle intercettazioni riguardanti fatti conosciuti per ragione del ministero, ufficio o professione dei ministri di culto, a meno che le stesse persone abbiano deposto su tali fatti o li abbiano divulgati in altro modo. Tale norma estende la protezione del segreto d’ufficio anche alle intercettazioni, assicurando che le informazioni acquisite attraverso comunicazioni confidenziali non vengano utilizzate inappropriatamente durante le indagini penali.
Obbligo di riservatezza
Se i fatti appresi dai ministri di culto nel loro ministero costituiscono una notizia segreta o riservata, sussiste un obbligo, non solo un diritto, di astenersi dal rivelarli. La rivelazione senza giusta causa o l’utilizzo improprio di tali informazioni integrano il reato di “Rivelazione di segreto professionale,” sanzionato dall’articolo 622 del codice penale. Questa norma si applica anche in caso di testimonianza giudiziale, a meno che vi sia il consenso del titolare del segreto.
Note
Fabio Franceschi, Manuale di Diritto Canonico. Analisi di Principi generali, Istituti e Problematiche dottrinali e giurisprudenziali, Neldiritto editore, Galatina 2021, pp. 140-142.
Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 01.07.2019.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
©RIPRODUZIONE RISERVATA