Michelangelo Buonarroti, la conversione di Saulo, 1542-1545, cappella Paolina
Una nozione desunta
Come noto il vigente Codice di Diritto Canonico non definisce esplicitamente il concetto di delitto, sebbene esso costituisca la base portante dell’intero sistema penale della Chiesa. Ad ogni modo, il Legislatore del 1983, pur non riprendendo la concettualizzazione sul punto cristallizzata al can. 2195 del CIC piano-benedettino [1], non si distanzia da essa, ricalcandone (non troppo) indirettamente i contenuti e gli elementi essenziali al can. 1321.
In particolare, al §2, la succitata norma statuendo che: “Nessuno è punito salvo che la violazione esterna della legge o del precetto da lui commessa non sia gravemente imputabile per dolo o per colpa”, come detto, indirettamente definisce il concetto di delitto, ricalcando la nozione delineata dall’abrogato Codice del 1917. Volendo, quindi, indagare gli elementi costitutivi delle condotte propriamente classificabili quali delicta, pare opportuno soffermarsi proprio sul can. 1321, segnatamente sui §§2 e 3.
L’elemento “materiale” del delitto
La norma in esame, con la sua formulazione “negativa” ha, per così dire, una struttura bipartita: ai fini della punibilità è necessario infatti che la condotta – e quindi il delitto – risponda a un preciso andamento strutturale, richiedendosi la presenza di due elementi, oggettivo-materiale il primo, soggettivo il secondo; ad essi se ne aggiunge un terzo, propriamente legale, contemplato al §3 della norma in commento.
Procedendo con ordine, il §2 del can. 1321 statuisce che non può aversi punibilità se non a seguito di una “violazione esterna della legge o del precetto”. Tale disposto richiede innanzitutto la “esterna” e “materiale” presenza di una condotta – attiva od omissiva, con evento o senza evento – chiaramente del soggetto, idonea a produrre una discontinuità tra la situazione originaria e quella attuale, e ciò in termini di pregiudizio del bene giuridico che l’ordinamento vuole preservare, dissuadendo i consociati dal tenere determinati comportamenti ovvero prescrivendo degli specifici obblighi di facere. Perché si abbia delitto, si richiede, quindi, che almeno prima facie l’atto materialmente posto in essere violi la legge o il precetto penali, che cioè sia sussumibile nell’alveo di una norma incriminatrice.
Il primo elemento materiale costitutivo del delitto rappresenta concreta applicazione del generale principio giuridico per cui “cogitationis poenam nemo patitur”: sarebbe infatti inimmaginabile punire qualcuno per un semplice pensiero o comunque per un fatto circoscritto alla psiche umana, in quanto inidoneo a interferire con il fluido e armonico andamento dei rapporti tra christifideles che in special modo il diritto penale canonico mira a promuovere e a preservare [2].
L’elemento “soggettivo” della grave imputabilità
Il secondo elemento costitutivo del delitto ricavabile sempre dal can. 1321 §2 è, come anticipato, quello “soggettivo”: la norma prevede infatti che la violazione esterna sia anche “gravemente imputabile” al suo autore, ossia a questi riconducibile non soltanto sul fronte della causalità materiale, ma anche di quella psicologica. In altri termini, perché possa parlarsi di delitto, si richiede che l’atto potenzialmente ricollegabile a una norma incriminatrice, sia davvero umano, ossia l’espressione di un discernimento previo e di una volontà causalmente orientata.
Il titolo della grave imputabilità, poi, potrà diversamente declinarsi nella forma ordinaria del dolo oppure in quella straordinaria della colpa. Nel primo caso, il reo, rappresentandosi alternativamente la possibilità di agire conformemente alla legge ovvero contra ius, viola la norma penale con coscienza e volontà. In particolare l’elemento soggettivo del dolo ha una struttura bifasica, abbracciando due momenti, il primo rappresentativo e il secondo volitivo, temporalmente distinti, ma logicamente interconnessi nella maturazione del disegno criminoso.
Dunque, in primo luogo, perché il momento intellettivo sia integrato si richiede che il soggetto conosca gli elementi oggettivo-materiali del reato: se, infatti, il soggetto non conosce oppure rappresenta erroneamente un requisito del fatto tipico, è esclusa la punibilità per assenza dell’elemento intellettivo e, quindi, dello stesso dolo.
L’elemento volitivo, invece, si configura quando l’autore materiale del fatto, rappresentandosi quanto anzidetto, maturi una volontà consapevole di realizzare il fatto tipico, traducendo quanto elaborato sul piano della mera astrazione in effettiva consumazione del reato [3] .
Accanto al dolo, come poc’anzi accennato, si pone la colpa quale ulteriore possibile titolo della imputabilità criminale, operante tuttavia in via eccezionale, nei soli casi espressamente previsti dal diritto. Per aversi colpa, il soggetto esclude di voler violare la legge, ma di fatto lo fa, omettendo la diligenza richiestagli nel tenere un determinato comportamento o, ancora, mancando di prevedere gli effetti pregiudizievoli della propria condotta in alcune circostanze, così da prevenirli [4]. Il soggetto che agisce con colpa è ad ogni modo imputabile, in quanto è volontariamente mosso nel proprio agire da negligenza, imprudenza o imperizia.
L’elemento “legale” del delitto
Da ultimo, volgendo l’attenzione al §3 del can. 1321, è possibile individuare l’ultimo dei tre richiamati elementi costitutivi del delitto, quello legale.
Come noto, la sanzione penale non è solo la principale conseguenza del delitto, ma ne integra un aspetto costitutivo imprescindibile; allo stesso tempo, ovvie necessità di certezza e stabilità degli effetti giuridici delle condotte umane, insieme ad altrettanto importanti finalità di prevenzione, richiedono che la pena sia predeterminata, conosciuta o comunque conoscibile dall’uomo, attraverso le modalità proprie dell’ordinamento canonico della legge o del precetto penali.
Perché si abbia delitto, allora, è necessaria la preventiva qualificazione di un fatto come tale e la precisa individuazione degli effetti sanzionatori che da tale condotta antigiuridica discendono. Alla luce di quanto esposto si comprende, allora, come il can. 1399 CIC, posto a chiusura del Libro VI, costituisca un unicum nel sistema penale canonico, una realtà giuridica non tanto confliggente con il generale principio di legalità, quanto strumentale alle peculiari esigenze della Chiesa, chiamata a intervenire non solo stricto iure, ma ogniqualvolta l’armonia nella compagine ecclesiale sia messa a repentaglio dall’agire umano.
Conclusioni
La nozione di delitto, così come delineata, non è soltanto espressione di una cultura giuridica diffusa sulla materia penalistica, ma è prima ancora tangibile segno delle peculiarità proprie del diritto della Chiesa. Esso, come noto, è uno degli strumenti privilegiati per il perseguimento della salus animarum; in tale prospettiva trova legittimazione anche il diritto penale che, benché costituisca una extrema ratio, assume tra l’altro la specifica funzione di accompagnamento del reo in un cammino di redenzione per una rinnovata scoperta di sé quale parte integrante della comunità di fedeli.
Note
[1] “È delitto la violazione esterna ed imputabile di una legge, a cui è aggiunta una sanzione almeno indeterminata”.
[2] Cfr. B. F. Pighin, Il nuovo sistema penale della Chiesa, Venezia, 2021, pp. 104-108.
[3] Cfr. G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, pp. 372-375; cfr. C. Papale, Il processo penale canonico, Città del Vaticano, 2012, p. 28.
[4] Cfr. C. Papale, Il processo penale canonico, cit., p. 29.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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