Autore ignoto, Giovanna d’Arco, raffigurazione del 1429
La capacità per le donne nel Medioevo di esercitare lo ius accusandi
Nel contesto medievale, la capacità delle donne di esercitare il diritto di accusa, noto come ius accusandi, era soggetta a diverse limitazioni. Già nel Codice di Giustiniano, si enunciava il principio generale che escludeva le donne dal protagonismo nei processi legali. Tuttavia, alcune eccezioni consentivano alle donne di presentare accuse quando il reato era stato commesso contro di loro o i loro familiari, o se il crimine era di una gravità tale da superare il divieto generale, come nel caso di simonia, lesa maestà e reati contro la pubblica annona.
Per garantire ciò stabilito nelle norme processuali romano-giustinianee, Graziano nel suo Decretum individuò motivazioni nelle Epistole di San Paolo e nelle loro interpretazioni durante il primo millennio. Queste motivazioni attribuivano alle donne uno status differenziato rispetto agli uomini, limitando così le loro capacità di esercitare lo ius accusandi. In particolare, Graziano sosteneva che le norme dell’Antico Testamento, che citavano l’attività della profetessa Debora come giudice, fossero superate dalle Epistole paoline, che conferivano alle donne uno status di sottomissione rispetto agli uomini, limitandone indubbiamente le capacità.
Le conclusioni di Graziano furono riprese da Paucapalea, considerato uno dei primi decretisti bolognesi, che elaborò il contenuto della compilazione grazianea. Assimilando le donne ai servi, ai criminali e agli infami, Paucapalea consentiva alle donne di esercitare lo ius accusandi solo in casi espressamente determinati. Pertanto, avrebbero potuto presentare denunce solo se fossero in possesso di informazioni che potessero far perseguire reati come sacrilegio, eresia, lesa maestà e simonia.
La Summa Decretorum di Rufino
Un’altra importante elaborazione sulla questione del diritto di accusa femminile si trova nella Summa Decretorum di Rufino, considerata la prima grande opera della decretistica bolognese. Rufino riconobbe la necessità di collegare gli istituti processuali dell’accusa e della testimonianza e di distinguere il procedimento penale da quello civile. Questa visione consentì a Rufino di affermare che le donne potevano esercitare il diritto di azione nel procedimento civile. Tuttavia, nel procedimento penale, sebbene venisse riconosciuta la loro capacità di presentare querela per perseguire reati commessi contro di loro o i loro familiari, il diritto di accusa veniva loro negato, tranne che in casi specifici come simonia, lesa maestà, alto tradimento e frode al fisco.
La Summa Coloniensis attribuì le limitazioni allo status processuale delle donne al peccato originale e alle norme giustinianee. Tuttavia, alle donne venne comunque riconosciuto il diritto di presentare querela e di esercitare il diritto di accusa per reati come simonia, lesa maestà, frode al fisco e alto tradimento.
D’altra parte, la scuola anglo-normanna degli ultimi anni del XII secolo sembrava non apportare novità significative in materia di accusa penale. Le donne potevano esercitare lo ius accusandi solo se erano parte lesa o se il reato minava l’ordine costituito.
La Summa Bambergenis
Infine, la Summa Bambergenis, un’opera della scuola francese all’inizio del XIII secolo, approfondì un tema trascurato dalle dottrine precedenti: la definizione dei soggetti per i quali le donne avrebbero potuto esercitare lo ius accusandi. Utilizzando ampiamente la legislazione civile, l’autore inserì in tale concetto tutti i parenti della donna, purché risultassero impediti, e ritardò il suo atto di impulso processuale fino a quando altri soggetti legittimati avrebbero potuto compierlo.
In sintesi, la tendenza della dottrina medievale era di non ammettere l’accusa delle donne, se non quando questa costituiva l’esercizio del potere dell’offeso in modo diretto o attraverso la rappresentanza di soggetti legati da vincoli di sangue. Inoltre, il diritto di accusa veniva concesso per reati di particolare gravità che richiedevano l’intervento dell’autorità giudicante, indipendentemente dal soggetto che li portava alla sua attenzione.
Bibliografia
G. Minnucci, La capacità processuale della donna nel pensiero canonistico classico II, in Quaderni di Studi Senesi, Giuffrè Editore, Milano, 1994, pp.229-237.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
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