Michielozzo e Donatello, pulpito esterno del Duomo di Santo Stefano, Prato, (1428-1438)
Qualche riflessione sulla prova testimoniale nei processi canonici
La prova testimoniale ha avuto sin da sempre un notevole peso nei processi canonici. Nelle cause penali, tra l’altro, acquista addirittura un rilievo ancor più marcato. Pare dunque fondamentale continuare a riflettere sul modo di produrre questa prova, di gestirla e di valutarne le sue risultanze, all’interno di un’impostazione che vede il processo canonico come uno strumento capace di approdare alla verità. Ecco qua tre riflessioni un po’ ‘disorganizzate’ sul punto.
La psicologia quale strumento ausiliare
In primo luogo, sarebbe auspicabile da parte degli istruttori nonché di tutti gli operatori una minima conoscenza di quello che a volte si potrebbe chiamare come «psicologia della testimonianza». L’anamnesi e la narrazione di quanto si è visto e percepito è anzitutto un processo intellettivo dove interagiscono elementi psicologici che hanno le loro regole. Come si dice a volte colloquialmente, è molto difficile per un giudice capire se un teste dice la verità o meno guardandolo negli occhi. Tra l’altro, mentre ascoltiamo non siamo in grado di confrontarci con gli atti ma ci facciamo anche le nostre idee, composizioni di luogo e rappresentazioni che poi sono presenti nel momento di approdare alla valutazione complessiva della causa.
Avere qualche competenza in psicologia potrebbe essere di grande aiuto nella produzione della prova testimoniale: fino a che punto sono rilevanti e che cosa indicano le piccole variazioni del racconto (in particolare se sono state rese parecchie deposizioni, magari in gradi diversi di giudizio), alcune lacune di memoria, determinati gesti o comportamenti (e dunque il linguaggio no verbale), modi di narrare? Quale tipo di fatto ha presuntivamente presenziato il teste e come potrebbe incidere questo nella fissazione dell’evento nella memoria e nel posteriore racconto? Quale indizi (accertati dalla psicologia, ad esempio) sono in grado di indicare una deposizione affidabile e quali magari puntano in senso diverso?
Pensare un nuovo metodo di interrogatorio?
In secondo luogo, nel nostro sistema l’interrogatorio giudiziale è lasciato nelle mani del giudice. A lui spetta il vaglio delle domande, la sua formulazione e la direzione dell’interrogatorio. Ed è una scelta legittima, naturalmente. Tuttavia, si potrebbe forse pensare alla possibilità di lasciare più spazio alle parti? Che siano ad esempio loro a porre le domande? Questo potrebbe arricchire la produzione della prova e arricchire di più la deposizione. Tante volte le parti (o i loro patroni) hanno in testa una chiara strategia processuale, e di conseguenza pongono le domande in una certa direzione. Quesiti che in astratto, agli occhi di un terzo, non sembrerebbero avere troppo senso possono invece essere molto utili all’interno di un itinerario di prova che l’avvocato ha in testa.
Occorre ammettere che per il giudice è impossibile capire questa strategia, quindi potrebbe essere incline a rifiutare certe domande magari molto concrete o precise e apparentemente riguardanti questioni periferiche che invece, nella strategia globale della parte che le propone, potrebbero avere un senso e contribuire efficacemente alla ricostruzione di quei fatti per il quale si è chiesta una determinata deposizione testimoniale. Magari per questo (ma non solo) tante volte i quesiti proposti per i testi hanno un sapere molto astratto e generale. Questo non consente sempre un reale approfondimento della prova testimoniale. Rimane sempre nelle mani del giudice il controllo della deposizione nonché il vaglio di pertinenza delle domande.
Curare la qualità della prova indiretta
In terzo luogo, la prova testimoniale richiede un avveduto trattamento quando si tratta della cosiddetta figura del «teste-vittima», frequente a volte nei processi penali per abuso, dove la deposizione dell’offeso diventa anche l’unica prova diretta sul fatto. In questi casi giova senz’altro curare la qualità della prova indiretta. Ma conviene appunto essere molto scrupolosi e precisi nella valutazione della deposizione della presunta vittima.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
©RIPRODUZIONE RISERVATA