Oggi giorno un ruolo molto delicato è quello del ministero del confessore, così tanto richiamato all’attenzione e cura pastorale dei preti da Papa Francesco ed è pertanto necessario chiarire canonicamente questo specifico ministero del sacerdote.
Il ministro della confessione
Secondo a quanto disposto dal can. 965, il ministro della confessione è solo il sacerdote. Tuttavia il carattere sacerdotale non è sufficiente per la valida amministrazione del sacramento, che alla potestà di ordine deve unire quanto richiesto dal diritto positivo della Chiesa: facoltà di esercitarla sui fedeli ai quali impartisce l’assoluzione (cf. can. 966, §1). Detta facoltà si può acquistare in due modi: ipso iure – ciò avviene in forza dell’esercizio svolto e comprende alcune ipotesi nelle quali si trovano i confessori menzionate nei cann. 144-976-977 – oppure per concessione da parte dell’autorità competente che, a norma del can. 969 § 1, istituisce legittimo l’Ordinario del luogo a conferire la facoltà di ricevere la confessione di qualsiasi penitente a tutti i sacerdoti. L’atto di concessione della facoltà di confessare è di carattere amministrativo ed è emanato in foro esterno. Esso è sottoposto a particolari cautele, dal momento che il ministro della penitenza sacramentale: «[…] È, senza dubbio, il più difficile e delicato, il più faticoso ed esigente, ma anche uno dei più belli e consolanti ministeri del sacerdote[…]»[1]. La concessione è un atto discrezionale disposto dal Superiore competente in rapporto all’idoneità del sacerdote destinatario mediante un esame o altra fonte. La facoltà può inoltre essere accordata sia a tempo determinato che indeterminato (cf. can. 972). Tale autorizzazione deve avvenire sempre in forma scritta (cf. can. 973). L’ambito di esercizio della facoltà discende da un criterio nuovo rispetto alla disciplina restrittiva in vigore prima del CIC: ora la facoltà si estende a raggio universale per chi ne detiene riguardo al proprio territorio. La perdita della facoltà di ricevere le confessioni può avvenire per revoca, perdita dell’ufficio, escardinazione o perdita del domicilio (cann. 974-975)[2].
Il Sigillo del segreto
Un obbligo specialissimo per assolutezza e gravità è il segreto in ambito confessionale. Proprio per il suo carattere inviolabile, tale dovere è definito con il termine di sigillo, che ha per custode Dio stesso[3]; pertanto non è assolutamente lecito al confessore tradire anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa. A tale obbligo sono tenuti anche l’interprete, se c’è, tutti gli altri ai quali sia giunta notizia dei peccati della confessione. È inoltre proibito al confessore far uso delle conoscenze acquisite dalla confessione con aggravio del penitente. Colui che è costituito in autorità, ed ha ricevuto notizia dei peccati di una confessione, non può avvalersene in nessun modo per il foro esterno (can. 983-984)[4].
Il foro interno è molto delicato perché attraverso l’assoluzione dei peccati passa la misericordia divina, pertanto è indispensabile al giorno di oggi non solo richiamare i sacri pastori a migliorare la loro cura spirituale delle anime ma soprattutto ad una maggiore attenzione a non incorrere in pene canoniche affinché il sacramento sia sempre strumento di grazia e non si trasformi in occasione di peccato.
Note bibliografiche
[1] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Adhortatio Apostolica Reconciliatio et paenitentia, 29: AAS 77 (1985) 252.
[2] Cf. PIGHIN, Diritto Sacramentale, Marcianum Press, Venezia 2006, 284-289.
[3] Cf. V. DE PAOLIS, De delictis contra sanctitatem sacramenti Paenitantiae, in Periodica 79 (1990) 191, dove si afferma in un latino che noi traduciamo: «Quando è ascoltato nel foro di Dio deve sempre rimanere nel foro di Dio».
[4] Cf. D’OSTILO, Prontuario del Codice di diritto canonico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, 378.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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