Differenza tra ordine sacro e voto di castità
Continuano gli impedimenti al matrimonio, di cui abbiamo ampiamente trattato QUI. Il can. 1088 disciplina che “Attentano invalidamente il matrimonio coloro che sono vincolati dal voto pubblico perpetuo di castità emesso in un istituto religioso”. L’impedimento di voto pubblico perpetuo di castità è strettamente connesso a quello di ordine sacro, previsto dal can. 1087: in entrambi i casi la forma di vita scelta si pone in contrasto con lo stato di vita matrimoniale, con la differenza che nel primo caso si sceglie la piena dedizione al servizio di Cristo e della Chiesa, mentre nel secondo fondamento della scelta è la ricerca della perfezione di vita con la totale dedizione di se stesso e la consacrazione a Dio in Cristo attraverso il voto di castità [1].
Le origini dell’impedimento
La consacrazione a Dio attraverso il voto di castità è presente fin dai primi secoli della Chiesa. Nel III secolo venivano costituiti l’Ordo Virginum e gli Asceti o Confessori per distinguerli dai chierici: in questi casi la celebrazione di un matrimonio era soltanto illecita ma non invalida [2]. Nel IV secolo si distingueva, invece, tra vergini velate e vergini consacrate: entrambe facevano la pubblica professione dinanzi al sacerdote, con la differenza che le prime non ricevevano alcuna consacrazione solenne ed erano semplicemente iscritte nei registri ecclesiastici, mentre le seconde facevano la professione pubblica innanzi al sacerdote, dal quale ricevevano la benedizione. Tale circostanza costituiva implicitamente la castità come impedimento al matrimonio e i matrimoni eventualmente contratti da chi era legato da voto pubblico di castità erano ritenuti gravemente illeciti, con la conseguente applicazione di pene ai contraenti, i quali erano tenuti a separarsi. Difatti, la presenza di un vincolo spirituale con Cristo si poneva in contrasto con la celebrazione del matrimonio che, se contratto successivamente, avrebbe costituito una forma di unione adulterina [3].
L’introduzione dell’impedimento
Con il susseguirsi dei Concili il voto pubblico di castità fu qualificato come impedimento matrimoniale. In tale direzione si mossero il Concilio di Parigi del 615, il Concilio Trullano del 692 e i Concili di Roma del 721 e del 743. Una dichiarazione esplicita fu invece offerta dal Concilio Lateranense I del 1123, che distinse tra voto semplice, considerato come impediente, e voto solenne, pronunciato dinanzi alla Chiesa, qualificato come dirimente [4]. I dubbi emergevano in relazione a quei voti emessi senza solennità oppure emessi al di fuori degli ordini religiosi e, in queste ipotesi, si discuteva circa la relativa forza invalidante. La soluzione fu offerta dal Concilio Lateranense IV del 1215, in cui si affermò che era solenne, e quindi dirimente, soltanto quel voto emesso durante una professione espressa o tacita fatta da qualcuno all’interno di ordini religiosi approvati dalla Sede Apostolica [5].
La disciplina nel Codice del 1917
Tale disciplina rimase invariata fino al Concilio di Trento e fu interamente recepita dal Codice pio-benedettino. Il can. 1073 prevedeva infatti che “Allo stesso modo attentano invalidamente il matrimonio i religiosi che abbiano professato i voti solenni, o i voti semplici, nei casi in cui per una speciale prescrizione della Sede Apostolica sia stata data forza di invalidare le nozze”. Pertanto, il religioso che aveva emesso il voto solenne di castità non poteva contrarre matrimonio né validamente, né lecitamente. La definizione di religiosi comprendeva tutti i fedeli che facevano parte di un ordine regolare, di un ordine religioso o di una Congregazione religiosa con obbligo di vita comune e dei tre voti di castità, povertà e obbedienza.
L’impedimento sussisteva inoltre in presenza di un voto solenne, ossia riconosciuto tale dalla Chiesa attraverso un atto di costituzione. Ciò definiva altresì la natura di diritto ecclesiastico dell’impedimento, sebbene un orientamento dottrinale sostenesse che fosse di diritto divino [6]. La dispensa dal voto pubblico di castità era di competenza esclusiva del Romano Pontefice, salvi i casi di urgenza in cui potevano dispensare anche l’Ordinario, il parroco ed il confessore. Un matrimonio contratto in presenza dell’impedimento in esame avrebbe comportato la scomunica latae sententiae riservata esclusivamente alla Santa Sede, l’irregolarità ex delicto, l’esclusione dagli atti legittimi ecclesiastici e la dimissione dall’ordine [7].
Il voto di castità
La disciplina dell’impedimento di voto pubblico di castità necessita di una riflessione preliminare circa la natura e il fondamento del voto di castità. Con questo il religioso si obbliga ad osservare il celibato e ad astenersi da qualunque atto contrario alla castità. Ai sensi del can. 1191 § 1 il voto è una promessa deliberata e libera di un bene possibile e migliore fatta a Dio, da adempiere in virtù della religione [8]. In particolare, il voto di castità è fatto da chi, per amore di Dio, rinuncia all’esercizio della sessualità, consacrando il proprio celibato [9]. Perché rilevi come impedimento matrimoniale, occorre che esso sia pubblico, ossia ricevuto in nome della Chiesa dal legittimo Superiore determinato dal diritto; solenne, se è riconosciuto dalla Chiesa come tale; perpetuo, cioè emesso per tutta la vita.
Il can. 1088 CIC 1983
Ai sensi della vigente disciplina canonica, solo il voto pubblico solenne di castità costituisce un impedimento al matrimonio canonico. Infatti, a seguito della semplificazione della precedente normativa in materia, che distingueva tra voto semplice (impedimento impediente) e voto solenne (impedimento dirimente), le condizioni per contrarre l’impedimento sono: la professione valida, il voto pubblico perpetuo di castità e l’emissione del voto in un istituto religioso. La professione religiosa deve essere emessa liberamente, senza violenza o timore; deve essere ricevuta dal legittimo superiore e deve essere preceduta dalla professione temporanea. Il voto deve inoltre essere emesso in un istituto religioso, sia esso di diritto pontificio che di diritto diocesano. Per tal ragione, non sono soggetti all’impedimento i membri delle Società di Vita Apostolica, non essendo istituti di vita consacrata, i membri degli Istituti Secolari, gli eremiti e le vergini.
Cessazione dell’impedimento
Trattandosi di un impedimento di diritto ecclesiastico, la prima modalità di cessazione è la dispensa concessa dall’autorità competente: essa sarà la Sede Apostolica, se il voto è stato emesso in un istituto religioso di diritto pontificio (can. 1078 § 2, 1°); il Vescovo della diocesi in cui si trova la casa cui è assegnato il religioso, se il voto è stato emesso in un istituto di diritto diocesano (can. 692). L’unica eccezione è prevista in pericolo di morte: in tal caso la dispensa potrà essere concessa dall’Ordinario del luogo, anche se il voto è stato emesso in un istituto religioso di diritto pontificio. Concessa la dispensa, il religioso perde tale status e, di conseguenza, è dispensato dai voti e da tutti gli obblighi derivanti dalla professione religiosa. L’impedimento cessa anche nel caso di passaggio di un soggetto da un istituto religioso ad un istituto secolare o ad una società di vita apostolica; se il religioso chiede di lasciare definitivamente l’istituto o nell’ipotesi di dimissione del religioso dall’istituto di appartenenza [10].
Note
[1] P. MONETA, Il matrimonio nel diritto della Chiesa, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 81 ss.
[2] P. PELLEGRINO, L’impedimento dei vincoli religiosi nel matrimonio canonico, Giappichelli, Torino, 2000, p. 82 ss.
[3] F.X. WERNZ – P. VIDAL, Ius canonicum, Tom. V, Ius matrimoniale, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1925, p. 355 ss.
[4] A. D’AURIA, Gli impedimenti matrimoniali, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2007, p. 136 ss.
[5] E. REGATILLO, Derecho matrimonial eclesiastico, Sal Terrae, Santander, 1962, p. 164 ss.
[6] A. BOGGIANO PICO, Il matrimonio nel diritto canonico, Utet, Torino,1936, p. 242 ss.
[7] T. MAURO, Gli impedimenti relativi ai vincoli religiosi: ordo, votum, disparitas cultus, in AA.VV., Gli impedimenti al matrimonio canonico, LEV, Città del Vaticano, 1989, p. 191 ss.
[8] L. CHIAPPETTA, Il Codice di diritto canonico. Commento giuridico-pastorale, vol. 2, EDB, Bologna 20113, p. 471 ss.
[9] P. PELLEGRINO, L’impedimento del voto pubblico perpetuo di castità in un Istituto Religioso nel nuovo diritto matrimoniale canonico (can. 1088 CIC; can. 805 CCEO), in Ius Canonicum, 79, 2000, p. 73 ss.
[10] A.M. ABATE, Il matrimonio nella nuova legislazione canonica, Paideia, Roma, 1985, p. 118 ss.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit”
(San Giovanni Paolo II)
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