Raúl Berzosa Fernández, olio su tela, 2016, papa Benedetto XVI
Con questo breve articolo, voglio soffermarmi maggiormente su quello che è un tema ancora largamente dibattuto e che ho potuto approfondire in vari studi che ho fatto in questi anni. La rinuncia al pontificato, che ritengo essere un argomento ancora non del tutto esplorato.
Sappiamo tutti quanta confusione e con quanta supponenza oggi certi personaggi scrivano il falso, magari in buona fede, sulla rinuncia di papa Benedetto. Non voglio entrare nel merito del perché, tali personaggi si spingano ad ipotizzare fantasiose ricostruzioni degne solo delle pagine di Dan Brown, ma piuttosto, da studioso dei canoni mi limiterò ad analizzare da un punto di vista strettamente canonistico la liceità e la validità della rinuncia al pontificato di papa Benedetto.
L’attuale legislazione sulla rinuncia
Il Codice di diritto canonico, al canone 332 paragrafo 2 [1] dice che per la validità della rinuncia è richiesta la plena libertate e che questa sia debitamente manifestata, per debitamente manifestata dobbiamo rifarci al canone 189 paragrafo 1 che dice: “La rinuncia, perché abbia valore, sia che necessiti di accettazione o no, deve essere fatta all’autorità alla quale appartiene la provvisione dell’ufficio di cui si tratta, e precisamente per iscritto oppure oralmente di fronte a due testimoni”.
La rinuncia di Benedetto XVI, resa pubblica l’11 febbraio 2013 ha assolutamente soddisfatto queste due condizioni. È stata fatta nel contesto di un Concistoro Ordinario pubblico (c’erano più di due testimoni quindi); tuttavia qualcuno potrebbe fare un’obiezione dicendo che la piena libertà consta della sfera personale di un individuo, ovvero riguarda il più intimo rapporto dell’uomo con Dio. In altre parole, nessuno può sapere con assoluta certezza se Benedetto XVI abbia rinunciato liberamente.
Al diritto canonico non interessa indagare nei meandri più personali dell’uomo, al diritto canonico interessa ciò che è possibile provare, ciò che attiene al piano razionale. Fare congetture è sempre rischioso e poco professionale, in qualsiasi ambito e si rischia di non giungere alla verità.
Rationabiliter la rinuncia di papa Benedetto è validissima, poiché egli con un atto personale di volontà, in questo caso verbalmente e per iscritto, ha dichiarato di voler liberamente rinunciare, e dato che nessuna autorità deve accettarla, quest’ultima diventa esecutiva dal momento stesso in cui viene pronunciata (nel caso di Celestino V) o da una data prestabilita (come nel caso di Benedetto) 17 giorni dopo. Non solo, ma Benedetto XVI si è spinto oltre, ha dato una spiegazione per “giustificare” il suo atto: “per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato” [2]. Dunque tutte le condizioni sono state soddisfatte e ampiamente.
Munus, ministerium, a cosa ha rinunciato Ratzinger?
Altro mito da sfatare, è la polemica, senza senso, di alcuni che asseriscono che Benedetto XVI abbia volutamente rinunciato al ministerium e non al munus, in altre parole avrebbe rinunciato a fare il papa e non all’essere papa.
Questa distinzione che non risulta applicabile per la figura del Romano Pontefice trova invece accoglimento in Lumen gentium, laddove distingue tra munus ed esercizio della potestas in materia di ufficio episcopale. Questa distinzione nell’ufficio episcopale si fonda sulla duplicità della trasmissione del potere: sacramentale, quanto all’ordine sacro e alla consacrazione episcopale che su quello si fonda (munus); e giuridica, quanto al conferimento della missione canonica e la conseguente libertà nel suo esercizio (ministerium – potestas).
In forza della suddetta distinzione tra potestas ordinis e potestas iurisdictionis, si ammette la figura del vescovo emerito, il quale, perduta la potestas iurisdictionis conserva il munus episcopale che era stato trasmesso per via sacramentale, non più libero tuttavia nell’esercizio dopo l’avvenuta rinuncia. Volendo semplificare il tutto, pensiamo a un padre che, raggiunti gli ottant’anni non ha più la forza per fare il padre, quindi per occuparsi fattivamente dei figli, pur non occupandosene più rimane comunque padre, il suo essere padre non viene meno per il solo fatto di non esercitarne più il ruolo.
Possiamo dire quindi che la ratio che ha motivato la previsione legale del canone 185 [3] del vigente Codice, che istituisce la figura dell’emeritato per chiunque abbia ricoperto nella Chiesa un ufficio, e poi “per raggiunti limiti d’età o per rinuncia accettata lo lascia”, la definirei “affettiva o paternalistica”, poiché non si vuol “cancellare” o dimenticare quella parte di vita spesa in quel determinato servizio e che al quale, in qualche maniera, vi si rimane legati seppur nominalmente, anche se privi del munus regiminis a quell’ufficio connesso. In ultimo, non è possibile dunque, nella figura del Romano Pontefice, distinguere il munus dal ministerium.
Dalla rinuncia al Papa emerito
La assoluta novità introdotta da Benedetto XVI è proprio il titolo e lo status da lui creati. Il titolo di papa emerito infatti, non ha precedenti nella bimillenaria storia della Chiesa. Benedetto XVI ha autonomamente deciso e coniato il nuovo titolo e il susseguente status di papa emerito.
Come è solito di Ratzinger, egli stesso ci ha detto il perché di questa scelta, e lo fa in una missiva indirizzata al Cardinale Brandmüller, nella quale si legge: “con il papa emerito ho cercato di creare una situazione nella quale io fossi per i media assolutamente inaccessibile e nella quale fosse pienamente chiaro che c’è un solo papa”.
Il titolo di emerito è frutto dell’assise conciliare, con il Motu Proprio Ecclesiae Sanctae, Paolo VI stabiliva che i vescovi diocesani ed equiparati al compimento dei 75 anni di età dovessero presentare la rinuncia al governo pastorale e una volta accettata, questi avrebbero mantenuto lo stesso titolo seguito dalla parola emerito.
Come avevo già accennato prima per la questione del munus, anche con il titolo di emerito, si è inteso tutelare il legame che continua a sussistere sul piano spirituale, giuridico e affettivo tra il vescovo e la sua sede dopo la rinuncia. Su questa base, molti e sicuramente più autorevoli canonisti, avevano proposto di attribuire a Ratzinger il titolo di vescovo emerito di Roma, già papa o addirittura di un suo ritorno nel gremio del collegio cardinalizio, tuttavia mi chiedo se questa equiparazione sul piano strettamente giuridico non rischi di estendersi anche a una equiparazione sul piano ideologico, pensando il Romano Pontefice come un qualsiasi vescovo diocesano. Sul piano sacramentale non muoviamo dubbio alcuno, ma da un punto di vista giuridico e canonico così non è. Dal momento della valida elezione e dell’accettazione, l’eletto al soglio pontificio abbandona ipso facto il collegio cardinalizio e il suo status, per assumerne uno nuovo che lo pone in maniera nuova e specialissima in un ufficio primaziale.
Quindi nel momento della rinuncia, il papa come qualsiasi altro vescovo assume il titolo di emerito, ma non di vescovo emerito, proprio per il rischio che questo possa non essere del tutto esaustivo della portata dell’ufficio da lui precedentemente assunto, bensì quello di papa emerito, più adatto a trasmettere al popolo di Dio la portata e la “cattolicità” del ministero petrino. In questo modo è chiaro che vi è un solo papa, (il regnante) ma risulta anche chiaro che il ministero petrino non può essere ad tempus, scriveva Ratzinger: “Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo”.
Se c’è un esercizio attivo vi è anche un esercizio passivo, che, slegato dalla potestas iurisdictionis rimane esclusivamente quello che il professore Valerio Gigliotti chiama il munus mysticum, ovverosia: “Quod ad me attinet etiam in futuro vita orationi dedicata Sanctae Ecclesiae Dei toto ex corde servire velim”. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio [4].
Mi piace concludere con una conversazione tratta da “l’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone” [5]:
– Il Santo padre dunque ci abbandona. Com’è possibile? Non è una fuga? [chiede un chierico ai confratelli lì riuniti],
– No figlio mio, non è una fuga, è un atto di coraggio, un gesto di lealtà verso se stesso e verso gli altri [rispose fra Ludovico],
– Non è mai accaduto nulla di simile [replicò un altro chierico],
– Non è del tutto esatto. [gli replicò fra Ludovico] Nella storia della Chiesa la parola mai è fuori luogo. Tutto l’umanamente accadibile, vi è già accaduto. Il solo fatto sovrumano è che essa esista ancora.
Note
[1] Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.
[2] Declaratio consultabile al sito: https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2013/february/documents/hf_ben-xvi_spe_20130211_declaratio.html
[3] A colui, che perde l’ufficio per raggiunti limiti d’età o per rinuncia accettata, può essere conferito il titolo di emerito.
[4] Declaratio consultabile al sito: https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2013/february/documents/hf_ben-xvi_spe_20130211_declaratio.html
[5] Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano, Mondadori, 1968, pp. 172-173.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
©RIPRODUZIONE RISERVATA