Un diritto penale a misura d’uomo
Nonostante l’espressione a misura d’uomo abbia assunto la connotazione di luogo comune, riesce ancora a contenere la ricchezza di significato profondo in quanto si propone di porre l’uomo al centro di tutto il sistema di vita, per cui ideologia e strutture devono attivarsi in funzione al suo essere persona e ai suoi valori innati.
Così, si realizza il vero umanesimo che riconosce l’uomo portatore di dignità, valori e diritti originari della persona perché originari e inviolabili.
Questa è la vera rivoluzione copernicana, vale a dire la riscoperta dell’uomo inserito nella riflessione del mistero di Cristo e della Chiesa con le radici affondate nella traditio. L’apice di questa riscoperta è rappresentata dalla dichiarazione Dignitatis Humanae[1] sulla libertà religiosa, oggi ritenuta la Magna Charta della Chiesa cattolica post-conciliare[2].
Alla luce di questi principi, l’umanesimo della dottrina cattolica rappresenta una caratteristica tutta propria: si sincronizza col divino e s’immedesima nel Cristo Uomo-Dio. Questa vivificazione ha ricevuto col Vaticano II una intensa e vivace lievitazione.
Il codice di diritto canonico è portatore di un nuovo umanesimo?
L’articolata premessa consente di porre due interrogativi: uno generale, l’altro particolare.
Il primo: il codice di diritto canonico è portatore di un nuovo umanesimo?
Si può intravedere la risposta nella lettura in parallelo dei cann. 96 e 204. Il can. 96 ci dà la dimensione divino-umana della persona, conseguita mediante il battesimo quale evento salvifico che innesta il battezzato a Cristo e l’inserisce nella comunione al popolo di Dio.
Il contenuto basilare s’incontra nel can. 204 dove sono trasfuse letteralmente le formulazioni conciliari. Queste costituiscono un valido campione di verifica per quel veluti magnus nisus transferendi in sermonem canonisticum hanc ipsam doctrinam, ecclesiologiam scilicet conciliarem, di cui è dichiarazione nella Costituzione Apostolica Sacrae Discipline Leges[3] per la promulgazione del Codex Juris Canonici.
In questa prospettiva il cuore del codice è il Liber II – De Populo Dei, dov’è delineata la persona nella sua individualità e nell’ambito comunitario. Da siffatti rapidi lineamenti intrecciati, emerge la figura del vero umanesimo, proclamato dalla dottrina conciliare, la cui massima espressione è rappresentata dalla libertà religiosa, per cui la Chiesa, come sosteneva Sant’Ireneo già nei primi secoli, diventa il «luogo della libertà ove è presente il Signore degli uomini»[4].
Il Liber VI è portatore di rinnovato umanesimo?
Ed ecco ora il secondo interrogativo, pertinente più nello specifico alla disciplina penale: il Liber VI – De sanctionibus in Ecclesia (oggi oggetto di riforma) è portatore dell’umanesimo sopra descritto?
Per dare una risposta, il discorso si svilupperà tenendo conto di due generi di norme: norme programmatiche e imperative.
Tra le prime, la più significativa per l’oggetto della questione, è il can. 1311, più esattamente per l’utilizzo di una sola parola che è espressione del nuovo umanesimo: christifideles. Questo temine riscatta il canone in oggetto e gli dà luce e vigore, sicché ogni volta che l’imputato viene chiamato a rispondere del suo comportamento illecito e/o portato a giudizio, egli deve essere trattato con lo spirito e i valori di cui è portatore.
Quello che avrete fatto ad uno solo dei miei fratelli più piccoli lo avrete fatto a me come adempimento del mandatum novum del Divino Maestro, ma è riferibile al settore penale per quanto attiene al giudizio sul comportamento delittuoso e all’applicazione della pena (cf. Mt 25,40; Gv 13, 34).
La ratio novitatis espressa dal concilio e la lettura per bonum et aequum, eliminano dalla formulazione del canone in esame la letterale concezione autoritaria e fiorisce quella di comunione.
Per quanto concerne le norme imperative l’attenzione viene posta al can. 1321 dove al § 3 che rivaluta l’uomo nella sua dignità originaria: «Posta la violazione esterna l’imputabilità si presume, salvo che non risulti altrimenti», cancellando la previsione di gratuita colpevolezza sancita dal can. 2200 § 2 CJC 1917.
Dunque, la condizione della persona radicalmente coinvolta in un comportamento colpevole è radicalmente capovolta: non più un colpevole in partenza, ma semplicemente imputato e quindi innocente fino a quando non venga dimostrata per sentenza definitiva la sua colpevolezza.
Nella nuova dinamica istruttoria e dibattimentale va riscontrata la preziosità della norma cucita appunto a misura d’uomo.
Infine, sempre nella norma, va ricalcato un altro particolare, il «non risulti altrimenti», che fa risaltare la squisita sensibilità evidenziata dallo stesso legislatore nel Prenotanda dello Schema 1973, dopo aver esposto la ratio di questa inversione di rotta: «Imputabilitas autem cessare dicitur non ex contraria tantum probatione, sed quoties aiud appareat»[5].
Solo così la pena assumerà la sua genuina connotazione, elevandosi sul fondamento scritturistico, teologico ed ecclesiologico, perché avrà assolto alla sua altissima funzione di rintegrazione del fratello alla comunione ecclesiale.
Note bibliografiche
[1] Cf. Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Declaratio de libertate religiosa. De iure personae et communitatum ad libertatem socialem et civilem in re religiosa. Dignitatis Humanae (7-12-65): AAS 58 (1966) 929-946.
[2] Cf. P. Colella, Rassegna di teologia, in La Dignitatis Humanae a vent’anni dal Concilio 25, 5 (1984) 413.
[3] Cf. Giovanni Paolo II, Constitutio Apostolica Sacrae Discipline Leges (25-01-1983): AAS 75 II (1983) VII-XIV.
[4] Ireneo di Lione, Adversus haereses IV: Ireneo, Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E. Bellini, Jaca Book, Milano 1981, 394 ss.
[5] Pontificia Commissio Codici Juris Canonici Recognoscendo, Schema Documenti quo disciplina seu poenarum in Ecclesia Latina denuo ordinatur-Reservatum, Typis Polyglottis Vaticanis, 1973, 7.
“Cum caritate animato et iustitia ordinato, ius vivit!”
(S. Giovanni Paolo II)
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